83 articoli dell'autore Annamaria Parlato
Annamaria Parlato 27/02/2023 0
Baronissi, la missione di Sabatino Citro è esaltare gli ingredienti di qualità
E’ pur sempre una “Vittoria” riuscire a realizzare i propri sogni professionali, è pur sempre una “Vittoria” avviare una pizzeria che rompe gli schemi in un paese di provincia. Sabatino Citro, reduce da esperienze di settore in giro per l'Italia, nel 2018 apre Vittoria Pizzeria a Baronissi, in pieno centro, a pochi passi dal moderno edifico comunale.
Passo dopo passo, superando momenti difficili, dopo circa cinque anni di intenso lavoro e ricerca, continua a soddisfare le golose voglie di tutti gli amanti della pizza. La sua è proprio una pizzeria in cui c’è lo studio della materia prima e la ricerca di prodotti eccellenti, che possano esaltare ancor di più lo strepitoso impasto a lunga lievitazione composto da un blend di farine di tipo 1 e 2 rimacinate a pietra della linea Antiqua del Molino Bongiovanni di Torino, derivanti da filiera certificata e dalla valorizzazione del lavoro di numerosi agricoltori.
La tipologia di pizza messa a punto da Citro ha un cornicione abbastanza alveolato, alto e pronunciato, che in ogni caso riesce a contenere perfettamente tutti gli ingredienti senza predominarli; il colore è leggermente più scuro ma uniforme, lo spicchio resta all’impiedi, non si piega al taglio, facendo sì che tutti gli elementi del condimento e soprattutto l’olio non rotolino nel piatto. Il morso è soddisfacente, perché le farine più grezze consentono una maggiore ruvidità e rusticità al prodotto, e la cosa strabiliante è leggerezza della pizza che risulta digeribile, quasi una nuvola scioglievole.
Se il commensale dovesse spaventarsi per l’esiguità del locale, allora dovrà ricredersi, sia perché la pizza di Sabatino è eccellente sia perché al suo fianco c’è una squadra composta da giovani apprendisti e familiari che riesce a coordinare la macchina alla perfezione, tutto funziona velocemente. Garbo e pulizia fanno il resto. Il menù propone non solo pizze rosse, bianche, speciali e del mese, ma anche taglieri, calzoni, panuozzi, montanare e fritti artigianali come crocchè, supplì, arancini e frittatine di pasta (consigliatissime).
Da provare la Capricciosa, che da qualche anno ha avuto un grande revival, e la pizza Vittoria, una riuscitissima rivisitazione della storica pizza salernitana Carminuccio, con olio all’aglio, pancetta rustica a cubetti, pomodorini datterini rossi, parmigiano reggiano 24 mesi, pomodoro 100% italiano e basilico.
Ovviamente imperdibili sono le pizze del mese, come la Contursi con la cicoria saltata in padella, pancetta di suino casertano, tarallo sugna e pepe sbriciolato e fiordilatte di Tramonti; la Contadina, rivisitata con fiordilatte di Tramonti, crema di broccoli, salsiccia fresca a punta di coltello, stracciata di bufala e pistilli di peperoncino; o tra le speciali la Cacio&Pepe rivisitata con fiordilatte di Tramonti, cacio e pepe, lardo di maialino nero casertano, pomodorino giallo del piennolo e olio. Su ogni pizza, poi, a piacere, si può aggiungere a crudo l’olio extravergine Erede dell’Azienda Agricola irpina Francesco Pepe, ottenuto da olive marinese monovarietale, una vera delizia.
Presenti in carta le birre del Birrifico dell’Aspide di Roccadaspide e alcuni vini campani. I tortini al cioccolato dal cuore fondente e i dessert della gelateria Angelo Napoli, da poco introdotti in carta, esaltano l’esperienza da Vittoria, un locale di valore in una cittadina che si sta distinguendo positivamente nel panorama enogastronmico salernitano.
Annamaria Parlato 25/02/2023 0
La cannabis che si mangia e non si fuma: un superfood che spopola
La canapa (Cannabis sativa) appartenente alla famiglia delle Cannabinacee è molto vicina a quelle delle Urticacee. E’ una pianta erbacea a fusto eretto, alto circa due metri, semplice o un po' ramificato nella parte superiore. La canapa possiede foglie opposte, picciolate, palmate, costituite da 5-9 foglioline lanceolate-acute, a margini seghettati, ruvide come il fusto. I fiori sono piccoli, incospicui, di due sessi (staminiferi e pistilliferi) su piante separate: i primi costituiscono delle rade pannocchie terminali, quelli femminili sono avvolti ognuno da una brattea.
I frutti, che in fondo si ravvisano negli stessi semi, sono piccoli acheni globosi, grigio-olivastri. Questi ultimi sono utilizzati per l’estrazione di un olio alimentare e combustibile e servono anche come mangime. Dai fusti della canapa, previa macerazione e battitura, si ricavano fibre tessili che vengono impiegate per la fabbricazione di funi, stuoie e tessuti molto resistenti.
La canapa è originaria dell’Asia centrale ed è nota la sua coltivazione in Cina sin dall’antichità. I Paesi che ne producono di più sono Russia e Cina, ma anche India, Paesi dell’Est Europa, Turchia, Spagna e Italia, con Emilia Romagna e Campania come maggiori fornitori anche nei secoli addietro, a partire da Settecento. Dal XIV secolo in poi, il suo uso in cucina è attestato da diverse memorie, a partire dai “Tortelli con fiori di canapaccia, ripieni di canapa, carne di maiale e fine spezie” e soprattutto durante il Rinascimento, quando Johannes Bockenheim, cuoco di papa Martino V, autore del manoscritto latino Registrum coquine (1430 circa), descrive la Minestra di canapuccia, buona per i malati.
L’uso alimentare della canapa in passato era molto diffuso in Italia, ma con il tempo si era perduto. Nel maggio 2009, invece, il Ministero della Salute ha riconosciuto in una circolare l’uso alimentare dei semi di canapa sativa e derivati, privi di Thc. La canapa sta conoscendo un'applicazione sempre maggiore in cucina, attraverso l'olio, che, spremuto a freddo, ha un delicato sapore di nocciole e una percentuale molto alta di acidi grassi essenziali, o la farina ottenuta dai semi di canapa. Si conosce appunto la canapa per i suoi effetti psicotropi e per le cronache in cui si trova spesso al centro.
Se trattata adeguatamente, però, questa pianta non solo è priva di pericoli, ma anche ricca di benefici. Il contenuto psicotropo (Thc) della grande maggioranza di queste piante è quasi sempre nullo, per questo si adatta bene alla gastronomia. Secondo la Legge 242/16, la norma che disciplina in Italia la canapa leggera, il livello Thc deve necessariamente risultare inferiore alla percentuale dello 0,2 o comunque non deve andare oltre lo 0,6%. In questo modo, la cannabis riesce a essere nelle migliori condizioni per essere commercializzata, senza provocare danni sulla salute.
L’altro elemento che si trova all’interno della pianta, in percentuali anche importanti, è il Cbd o cannabinolo, che non presenta effetti psicotropi. La canapa light prevede la commercializzazione e il trattamento di un’unica varietà: quella sativa. Gluten free e quindi adatta a celiaci, la canapa si può anche trovare nella pasta, nella pizza, nel casatiello, nella birra artigianale e persino nei gelati, trovando anche largo consenso nel mondo vegano.
La coltura della canapa in Campania oggi è favorita dai bandi d’investimento regionali e dalla loro premialità. Ecologicamente sostenibile e molto resistente, la coltivazione non richiede l’utilizzo di erbicidi o pesticidi. La canapa è una preziosa fonte di vitamine, ossidanti, carboidrati, fibre, minerali, proteine, calcio e potassio; ormai molti chef e pizzaioli nella provincia di Salerno la impiegano per creare specialità gastronomiche, invitanti ed interessanti, con un retrogusto piacevole che sa di farine integrali, lasciate se vogliamo ancora grezze, come natura vuole.
Annamaria Parlato 30/01/2023 0
Cicoria, che passione: numerose le varietà diffuse anche nel salernitano
Il termine cicoria indica diverse varietà di piante del genere Cichorium. Le varietà di verdura che si contraddistinguono con questo termine sono numerosissime e si caratterizzano per un gusto leggermente amarognolo, dovuto a una sostanza in esse contenuta, assai benefica per il nostro organismo. Intorno ai pascoli abbandonati e lungo le strade delle aree verdi del territorio salernitano cresce spontaneamente la cicoria selvatica.
E’ pianta rinomata per le sue riconosciute qualità organolettiche e per i suoi effetti salutari: ha foglie tenere e croccanti e un sapore amaro molto particolare, i suoi effetti sono rinfrescanti e depurativi. La tradizione della minestra di cicoria, nelle zone interne della provincia di Salerno, è legata all'uso come alimento che la Madonna fece di questa pianta dal sapore fortemente amaro dopo la morte di Gesù. Tra l’altro, le cicorie sono ricchissime di ferro, calcio, potassio e hanno anche un’azione leggermente diuretica oltre che depurativa. Sono sconsigliate a chi soffre di disturbi intestinali a causa del loro contenuto di cellulosa, che può provocare irritazioni.
Tra le varietà più note, ricordiamo le cicoria da taglio o a mazzetti. La raccolta di questa insalata avviene mediante taglio delle foglioline, lasciando a dimora le piantine che daranno successive “fioriture”. Le foglie hanno un colore verde cupo e forma stretta e allungata, con sottile nervatura centrale. Vengono riunite in mazzetti e così vendute. Si preparano tagliandole a striscioline sottilissime, dopo un’accurata lavatura.
Il cicorino è invece una delle varietà più tenere della cicoria; si presenta a ciuffetti con foglioline strette e allungate, non più di 4-5 centimetri. Esiste anche un’altra varietà (Ceriolo) con una rosetta di foglie verdi tendenti al giallo, di forma tondeggiante. Sempre a questa famiglia appartiene un altro tipo d’insalatina con foglie ondulate ai margini, alcune di un bel verde vivo, altre di un verde tendente al giallo.
La cicoria belga è una varietà di cicoria di origini molto recenti, il cui nome originario è “witloog”, foglia bianca in fiammingo. Nel 1845, il capo giardiniere dell’orto botanico di Bruxelles scoprì che, nell’oscurità della cantina di casa sua, alcune radici di cicoria avevano germogliato, dando origine a un prodotto particolarmente tenero e delicato. Da quel momento, e per oltre vent’anni, attraverso una serie di studi ed esperimenti, cercò di migliorare la qualità, la forma e il sapore di questo ortaggio. Il risultato è quello che tutti conosciamo: lunghe foglie bianchissime, leggermente gialle verso la punta, che si avvolgono strettamente le une sulle altre a formare un cuore allungato e compatto.
La cicoria belga è croccante e tenera, ricca di idrati di carbonio, insulina calcio e fosforo. E’ particolarmente indicata nelle diete dimagranti poiché contiene solo 17 calorie per ogni 100 grammi. La semina di questa cicoria avviene durante la primavera in aperta campagna; dai semi nascono lunghe radici, sormontate esternamente da un rigoglioso ciuffo verde. In autunno, le radici vengono estirpate dal terreno e innestate in speciali rape predisposte allo scopo, dalle quali trarranno la linfa per germogliare al buio, in appositi capannoni di lamiera ondulata.
Durante il periodo di sviluppo, speciali condutture sotterranee provvedono a mantenere la pianta alla giusta temperatura. Il periodo della raccolta va da dicembre a febbraio, ma in Italia la sua produzione è molto ridotta per mancanza delle attrezzature necessarie; quindi, quella che arriva sui nostri mercati è quasi tutta d’importazione.
La catalogna, infine, è una cicoria il cui nome deriva dalla sua terra d’origine, la comunità autonoma della Catalogna, in Spagna. Si presenta sotto forma di grossi cespi simili ad asparagi, lunghi anche 40-50 cm, con foglie sottili e frastagliate ai margini, con costola centrale bianca piuttosto carnosa, ha azione depurativa e rinfrescante. Questa cicoria si mangia prevalentemente cotta poiché cruda è piuttosto coriacea ed amara; ma a Roma si consumano crudi i germogli giovani, che vengono chiamati “puntarelle”.
Annamaria Parlato 22/01/2023 0
Vlad Dracula "strega" l'Augusteo di Salerno, la nostra rilettura "gastronomica"
Nonostante le condizioni meteo avverse con grandine, pioggia, vento e gelo, sala gremita al teatro Augusteo di Salerno, e di giovani che finalmente ritornano al teatro, riappropriandosi del suo fascino. Il musical Vlad Dracula, diretto dal salernitano Ario Avecone, lo scorso 6 gennaio si presentò alla città attraverso un singolare flash mob tra le strade del centro, in preda alla folla delle Luci d’Artista, inscenando un corteo di giovani donne in abiti da sposa illuminate dalla luce fioca delle candele (le spose di Dracula) e suscitando enorme curiosità tra i passanti.
Venerdì 20 gennaio, alle ore 21:00, la prima delle tre serate ha registrato il tutto esaurito nelle vendita dei biglietti, a riprova che il genere noir o gotico ha un elevato potere attraente e attrattivo. Gioco di luci strepitoso, a cura di Alessandro Caso, lo spettacolo si è palesato come un’originale rivisitazione del romanzo di Bram Stoker, innovativa ed estremamente contemporanea, a tratti futuristica.
Vlad, interpretato dal salernitano Giorgio Adamo, è alla ricerca spasdomica della sua Elizabeth, che ritrova negli occhi della seducente Mina, moglie del giornalista Jonathan Harker. Tanti gli spunti di riflessione e gli interrogativi che il palcoscenico ha posto all’attenzione del pubblico: temi ambientalisti, il ruolo della stampa e dei giornalisti, il potere della tecnologia che può agevolare l’uomo ma anche distruggerlo con le sue bizzare macchine.
Vlad Tepes è sicuramente meno assetato di sangue e più umano, quasi un nostalgico romantico di un passato che non ritornerà, un vampiro dall’animo poeticamente addolorato per la perdita della sua amata ma non rassegnato, insomma un assassino che si lascia quasi “catturare”, mettendo a nudo le sue angosce e fragilità. Le scenografie, realizzate da Michele Lubrano Lavadera, sono ambientate nell’epoca post-industriale di fine 800 dal sapore steampunk e fantascientifico.
Un fiume di applausi ha concluso la serata, durata all'incirca due ore, godibilissima, testimonianza della creatività salernitana, un esempio di come al Sud si possano creare dei piccoli gioielli grazie al lavoro di squadra e alla bravura del team di attori che, con sacrificio, già in epoca Covid vi ha lavorato assiduamente. Avecone ha dichiarato: “Non ci speravamo più, abbiamo rinviato tante volte la tournée per via della pandemia e della chiusura dei teatri. Pensavamo di non farcela e di non ritornare più sul nostro palcoscenico, ma stasera siamo qui e sono orgoglioso della mia squadra, composta da professionisti talentuosi. Questo è il Sud che piace. Spero che Salerno ci porti fortuna e che le altre regioni d’Italia apprezzino il nostro innovativo spettacolo”.
Da Vlad a Dracula: storia e leggenda del vampiro più noto al mondo intero
Chi non conosce il vampiro più famoso del pianeta, il più sanguinario e spietato associato alla nebbiosa terra di Transilvania? Tutte le arti lo hanno sempre descritto in maniera fantasiosa, ma c’è anche un fondo di verità nella sua storia. La Transilvania, che si trova al centro della Romania, è circondata da tre parti dalle montagne dei Carpazi. Proprio qui nasce il personaggio Dracula, che dal suo castello getta panico e terrore tra le popolazioni dei villaggi circostanti.
Nel XV secolo, Enrico VI e gli Inglesi combatterono nella guerra delle Tre Rose, quando re dell’Ungheria fu il rumeno Matei Corvin e quando Mohamed II cercava di conquistare l'Europa cristiana. In questo frangente, ragioni diverse causarono la trasformazione del re della Valacchia (provincia romena) in un vampiro sanguinario. Vlad Tepes III o l’Impalatore regnò in Valacchia dal 1448 al 1476 e con la sua morte finì anche il suo regno. I ritratti lo presentano con folti baffi, naso adunco, occhi grandi e sguardo penetrante. Vlad III fu chiamato Dracula perché ereditò il soprannome del padre Vlad II chiamato Dracul, dall’ordine del Dragone. Dracula, o più correttamente Draculea, appartiene alla categoria dei nomi romeni che terminano in “ulea”.
Vlad III, conquistato il potere, fu spietato e sanguinario. Le violenze erano tra le più terribili, come il massacro del 1460, nel giorno di San Bartolomeo, quando in una città della Transilvania furono impalate 30.000 persone. Da quegli atroci delitti, Vlad III divenne per tutti Dracul, il demonio. Il principe in persona nel suo diario racconta delle carneficine, del cannibalismo e del modo in cui impalava le vittime, tra le quali bambini e donne, ma anche vergini di cui si narra raccogliesse il sangue per berlo con vino ed alcol. I pali che servivano per uccidere i nemici erano studiati per accelerare o rallentare l’agonia, e a seconda della vittima usava pali diversi. Questi accadimenti storici ispirarono sicuramente lo scrittore Stoker per dar vita al suo famoso romanzo, pietra miliare nella letteratura vampirica.
Se Dracula diventasse per un attimo umano, cosa apprezzerebbe maggiormente a tavola?
Il musical, la storia e la letteratura hanno fatto sorgere spontaneamente, in chi scrive e si occupa da tempo di enogastronomia, questo interrogativo. Probabilmente il conte non abbandonerebbe del tutto il sangue ma andrebbe alla ricerca di preziosi alimenti richiamanti e contenenti il liquido rosso. Partendo dalla scelta del vino, si orienterebbe verso pregiati rossi italiani, come il Sangue di Giuda DOC dell’Oltrepò Pavese che può accompagnare formaggi stagionati, primi corposi, salumi oppure, nella variante dolce, dessert secchi a base di confetture come le crostate; o il Sangue di Drago, meglio noto come Teroldego Rotaliano DOC, un vino che nasce da un vitigno autoctono del Trentino, dal colore intenso, quasi nero, corposo e ricco, ottimo se abbinato alle carni succulente.
Un cocktail che piacerebbe di sicuro a Dracula potrebbe essere un classico Bloody Mary a base di vodka, succo di pomodoro e spezie piccanti o aromi come la salsa Worcestershire, il tabasco, il consommé, il cren, il sedano, il sale, il pepe nero, il pepe di Caienna e il succo di limone, forse associato alla figura di Maria I d’Inghilterra, detta la Sanguinaria. Tra i cibi non disdegnerebbe carni alla brace dalla tipica cottura al “sangue”, insaccati con sangue come i boudin alpini, le mustardele piemontesi, i sanguinacci lombardi, i mallegati toscani, i sangùnèt pugliesi, i mazzafegato umbri, le susianelle laziali, i sanguineddi sardi.
Ancora, ingurgiterebbe sanguinacci campani al cioccolato, oggi privi di sangue di maiale perché in Italia dal 1992 ne è stata vietata la vendita, compagni fedeli di chiacchiere nel periodo carnevalesco anche in Basilicata e Calabria; il migliaccio di Carnevale, che anticamente era a base di sangue e miglio, il sangue fritto di maiale cotto con alloro, scorze di agrumi e poi soffritto in padella con sugna e cipolle, condimento ideale per gli spaghetti, la torta di sangue tipica del settentrione con formaggio, latte e pangrattato.
Nei secoli, l’uso del sangue per scopi alimentari fu spesso vietato. Nell’ebraismo biblico il tabù del sangue risale alla notte dei tempi. Il Genesi descrive le prime generazioni di uomini come vegetariani, con un’alimentazione prevalentemente a base di frutta. Nel VII secolo d.C., precisamente nel 692, il Concilio Quinisesto (Quinisextum), tenuto a Costantinopoli, vietò espressamente il consumo di qualsiasi alimento contenente sangue. Solo più tardi, a partire dalla fine del XIX secolo, gli alimenti contenenti sangue come ingrediente cominciano ad essere tollerati. Dracula in ogni caso nel XXI secolo avrebbe l’imbarazzo della scelta, storcerebbe un tantino il naso per agli e cipolle ma resterebbe soddisfatto di un sanguigno percorso degustativo tra i prodotti tipici regionali italiani.
Annamaria Parlato 31/12/2022 0
L'alloro è l'erba che insaporisce i nobili piatti delle festività natalizie
Conosciuto anche come “lauro” nobile dal termine latino, è un’erba originaria dei Paesi dell’Europa meridionale e dell’Asia Minore. Nell’antichità era venerato dai Greci e Romani, essendo la pianta dedicata ad Apollo, dio della conoscenza; con le sue foglie venivano preparate le corone destinate a poeti e ai condottieri trionfatori. Nel culto religioso, l’alloro rivestiva una grande importanza poiché veniva coltivato vicino ai santuari e alle cappelle, in luoghi di espiazione e purificazione.
L’alloro è un alberello sempreverde, con foglie dai sentori intensi, molto usate in cucina e dalle mille virtù terapeutiche. L’alloro è l’erba di tutto l’anno, ma gastronomicamente parlando è l’erba dell’inverno: la sua vita comincia in ottobre e se ne apprezza tutto l’aroma inconfondibile sopratutto nei mesi più freddi e nei piatti della tradizione, in particolar modo natalizi.
Compagno fedele di minestre di legumi come lenticchie, piatti a base di maiale, castagne bollite, zuppa forte (o’ suffritt) e felice connubio con il capitone, pietanza tipica della Vigilia di Natale e di Capodanno. Il tocchetto di pesce, arrotolato appunto in foglia di alloro, viene sistemato sulla brace e di tanto in tanto irrorato con emulsione di olio, aceto, aglio e prezzemolo. Lo stesso tocchetto fritto richiede anch'esso la foglia di alloro, ma messa a macerare nell’aceto con cui forma una marinata.
Mangiare il capitone il 31 dicembre è un atto simbolico, un simbolo di buon auspicio che trae la sua origine direttamente dalla Bibbia. Il capitone ha una forma molto simile a quella del serpente, simbolo del diavolo e colpevole di aver fatto cadere in tentazione Adamo ed Eva, spingendo quest’ultima a mangiare la mela del peccato. Ebbene, mangiare l’anguilla il 31 dicembre è un po’ come mangiare il serpente e quindi il male: un gesto simbolico per scacciare via la cattiva sorte e accogliere la benevolenza in casa.
Una tradizione che arriva da molto lontano: già in antichità, si pensava che mangiare il capitone potesse scacciare via il male. All’epoca di Virgilio e Seneca, si raccontava di riti propiziatori durante i quali venivano fatti a pezzi i serpenti. Con il Cristianesimo la tradizione cambiò, con il capitone che sostituì il serpente: da allora, mangiare il 31 dicembre l’anguilla fritta è diventata una tradizione per scacciare via la malasorte.
Altro elemento che caratterizza la tavola di Natale sono i fichi secchi, semplici o imbottiti, quelli bianchi del Cilento, infilzati singolarmente e messi in fila su uno spiedo di legno, intervallati con foglie di alloro, che donano loro un profumo irresistibile. Ancora, i fegatini di maiale, con la foglia di alloro, vengono avvolti nella loro rete, cucinati a fuoco lento con la sugna ed esaltati con il succo di limone.
Nei secoli passati, la plebe era abituata a mangiare il “pane cotto”. Questa pietanza si basava sulla disponibilità di reperire i giusti ingredienti, uniti ad un pizzico di genialità e fantasia. Si soffriggeva una cipolla, finemente tagliata, nel lardo, nella sugna o nell’olio; quando la cipolla raggiungeva un colore dorato, si aggiungeva dell’acqua di fonte. Non appena il composto liquido, aromatizzato con foglie di alloro, raggiungeva il bollore, si immergevano i pezzi pane raffermo.
Quando il pane impregnato di grasso e acqua diventava gommoso, si serviva con formaggio di pecora grattugiato o, in mancanza, con prezzemolo tritato e pepe nero macinato grossolanamente. Insomma, l’alloro, e l’intimità che da esso si ricava quando lo degustiamo, può farci sentire più grandi dei poeti, dei re e degli dei.
Annamaria Parlato 24/12/2022 0
Chiodi di garofano e cannella, spezie del Natale in Campania
Chiodi di garofano e cannella, profumatissime, sono due spezie che non possono mancare nella tradizione dolciaria campana in periodo natalizio. Donano un particolare aroma ai classici biscotti napoletani a forma di ciambella, antichissimi, chiamati “roccocò”, e ai “mostaccioli”, questi ultimi a forma di rombo ricoperti di cioccolato, cui va aggiunta una mistura detta “pisto”, formata da diverse spezie tra cui anche cannella e chiodi di garofano.
I chiodi di garofano sono i boccioli rosa essiccati di un sempreverde originario delle Molucche. Nei Paesi in cui crescono vicino al mare, nell’Africa tropicale o nelle Indie orientali, il loro inebriante profumo colpisce il viaggiatore ancor prima che la terra sia visibile. I chiodi di garofano sono una spezia molto antica, già nota ai Cinesi nel III secolo a.C. e più tardi ai Romani, che la utilizzavano in cucina, in medicina e in cosmesi. In Europa, la popolarità di questa spezia risale al Medioevo, quando fu usata non solo come ingrediente culinario, ma anche come antisettico e deodorante di ambienti.
Sono un ingrediente essenziale di diverse ricette inglesi, tra cui il Christmas pudding, e vengono spesso abbinati a piatti a base di mele, in vini speziati, liquori, conserve. I chiodi di garofano si possono trovare essiccati interi o in polvere; è preferibile acquistarli interi e macinarli all’occorrenza, poiché la polvere tende a diventare rancida.
La cannella invece è la corteccia essiccata, di color marrone chiaro, di un albero tropicale simile all’alloro, con piccoli fiori bianche e bacche nero-porpora, che cresce fino a tre metri; la scorza viene fatta seccare in strisce sottili, avvolte su se stesse a formare dei bastoncini cilindrici, dette stecche. Nei tempi antichi, la cannella era una spezia rara e costosa. Venne custodita gelosamente, come fosse un prezioso tesoro, dal re Salomone, che l’ebbe in dono dalla regina di Saba.
All’epoca dei Romani, Plinio ne deplorò l’uso sfrenato che ne fece Nerone, quando bruciò le scorte di un anno intero per i funerali della moglie Poppea. Nel Medioevo, pur essendo ancora piuttosto costosa, divenne in Europa un ingrediente basilare, insieme allo zenzero, nei piatti unici a base di carne e frutta tipici di quel tempo. La cannella oggi resta pur sempre una spezia fondamentale per aromatizzare creme, dolci e biscotti. Nella cucina araba e mediorientale, la cannella aromatizza minestre e piatti come le melanzane farcite o l’agnello stufato, e nella cucina indiana è una spezia importante in pilau e curry. La cannella la si può trovare anche in polvere; è preferibile acquistarla in stecche o, se in polvere, in piccole quantità perché conservi aroma e sapore; le stecche sono difficili da macinare.
Di seguito si suggeriscono due proposte interessanti, ideali durante il periodo delle festività natalizie. La prima è quella dei toast alla cannella, un tradizionale spuntino inglese da servire a colazione o con il tè, usato soprattutto nei college di Oxford e Cambridge, tenuto in caldo in appositi piatti coperti. La seconda è un prosciutto glassato con succo di mele, in cui viene utilizzato il prosciutto di Sauris IGP, prodotto in provincia di Udine, una vera leccornia affumicata con legno di faggio, che andrà ad arricchire la tavola delle Feste. Volendo restare in ambito salernitano, il miglior modo per utilizzare la cannella è nella preparazione delle golose zeppole, assieme allo zucchero semolato, o nella realizzazione di panettoni artigianali con le mele, meglio se annurche.
Annamaria Parlato 29/11/2022 0
"Sorbole", che bontà: frutto tipico del salernitano ormai raro e dimenticato
Un frutto che pochi ricordano sono le sorbe, piccoli portafortuna molto diffusi tra contadini e pastori, consumati durante il periodo invernale e natalizio. I frutti venivano in passato usati a scopo alimentare, ma oggi non vengono quasi più adoperati. Il sorbo, tipico della Macchia Mediterranea, con i suoi frutti è una pianta antichissima: le prime notizie risalgono al 400 a.C. in Grecia; i Romani lo fecero conoscere al resto dell’Europa.
Virgilio, nelle Georgiche (III, 380), narrando di popolazioni che vivevano nell’Europa dell’Est, a nord del Mar Nero, racconta che, dopo le cacce al cervo nella neve, si riunivano in grotte dove accendevano grandi fuochi e bevevano una miscela di orzo fermentato e acide sorbe. L’etimologia del latino sorbus è incerta: secondo alcuni deriverebbe dal verbo sorbeo, ossia bere, assorbire, in quanto i frutti del sorbo arrestano i flussi dell’intestino. Dioscoride e Galeno erano concordi su quest’uso terapeutico.
Tuttavia, pare assai più verosimile un’etimologia indoeuropea, da sor-bho cioè rosso, corrispondente al colore dei frutti. Con il termine sorbo si indicano alcune specie vegetali appartenenti alle Rosacee (Dicotiledoni), che si presentano come piccoli alberelli o grossi cespugli. Producono fiori regolari, a cinque petali liberi, generalmente biancastri, e maturano piccoli frutti globosi o oblunghi, giallastri o rossi.
Molto noto nella regione mediterranea è il Sorbo domestico (Sorbus domestica o Pirus domestica), già conosciuto nei secoli passati, con foglie imparipennate e foglioline seghettate al margine. Esso produce frutti, le sorbe, che sono raggruppati e penduli; ora essi assomigliano a piccole pere, ora a minuscole mele di color giallo-verdastro, e vengono raccolti ancora acerbi in autunno, per essere conservati sulla paglia fino a completa maturazione, o meglio, all’ammezzimento.
In tali condizioni, la loro polpa brunastra assume un sapore acidulo e aromatico, gradevole. I pomi diventano scuri, morbidi e saporiti per una trasformazione enzimatica. Il frutto maturo ha un contenuto di zuccheri di circa il 20% e viene consumato al naturale o utilizzato per la preparazione di marmellate. I frutti del sorbo domestico erano più diffusi nei secoli passati; negli ultimi decenni, il consumo e la diffusione dei frutti sono andati via via in diminuzione.
Oggi sono considerati una rarità e vengono catalogati nei frutti dimenticati o frutti minori. Vi sono diverse varietà: la sorba agostina, o suovero agostegno, che matura in fine agosto; la sorba autunnale, o suovero a panella, di color giallo e rosso, molto grande, matura a settembre; la sorba capitana, che matura in dicembre; la sorba pera tortona che matura in inverno; la sorba varrecchiare matura da dicembre a febbraio; le sorbe antignane, dal colore rosso-verde, maturano in dicembre e si presentano in bei grappoli o schiocche.
Vi sono ancora le sorbe nataline e le pascarole, ma si deve considerare che in luoghi diversi la stessa varietà è chiamata con nomi differenti. Le sorbe capitane e le antignane sono le più pregiate in quanto a pezzatura e a sapore. “O mazzo o ‘a ceppa ‘e sovere” si tiene appeso sul terrazzino e si spizzicano i frutti squisiti, man mano che diventano maturi. Nelle leggende europee il sorbo è una pianta che protegge chi ne possiede un esemplare, scacciando in questo modo gli spiriti maligni. “Sorbole” (cioè sorbe) è anche una tipica esclamazione dialettale bolognese, che sta ad indicare stupore, meraviglia, sorpresa.
Annamaria Parlato 09/11/2022 0
Nobi, il ristorante di Fisciano in cui si fa ricerca sulla materia prima
Nobi sta per “nobilitare” le ricchezze agricole del territorio fiscianese, ma anche per “Nobile” Di Leo, colui che ha sottolineato - Ho immaginato un luogo dove chiunque potesse imparare ad amare la terra come lo amo io - e ha dato vita ad una masseria con food court in cui poter dar sfogo ad ogni vezzo gastronomico. Chi ha fame di novità, infatti, vuol godere di un’ottima cucina d’autore in un clima confortevole, curato nei minimi dettagli e in cui ci sia un buon rapporto qualità-prezzo.
Nobi accomuna tutte queste caratteristiche, perché il ristorante sorge in Contrada San Lorenzo di Fisciano, a due passi dall’uscita autostradale, dall’Università, da Salerno centro e da Avellino, completamente circondato da noccioleti, orti e natura rigogliosa; inoltre, esternamente ed internamente, la location è stupenda, con le due piscine di cui una a sfioro e le sale abbellite dal design d’autore, in cui predominano attraenti e vivaci tele e sculture di arte contemporanea; infine, la cucina di Michele De Martino è una garanzia da ogni punto di vista ed i costi sono nettamente inferiori alla norma, includendo i vini, considerando che c’è tanta perizia e che la materia prima è di estrema eccellenza.
Nobi è la naturale continuità della Masseria Nobile, azienda di punta del salernitano (Castel San Giorgio) dal 1966 per la produzione di legumi e pomodori, di cui datterini gialli Dolly, San Marzano DOP e marzanini. La coltivazione dei pomodori resta a Fisciano e l’inscatolamento avviene nello stabilimento di Castel San Giorgio, a pochi chilometri dai filari. “Nobile” è un marchio di proprietà di Calispa Spa, oggi alla terza generazione, che seleziona il meglio della produzione dandole un nome “nobile”, come il lavoro che da cinquant’anni viene svolto quotidianamente, controllando tutti i processi e garantendo al consumatore un prodotto sicuro, buono, sano e genuino.
La giovanissima Ilaria Di Leo, con il compagno originario di Vietri sul Mare, Nicola Gregorio, è alla guida del ristorante e anche dell’azienda di famiglia. Affiancata da un team di sala rispettoso delle regole dell’ospitalità, ha migliorato nel tempo le solide fondamenta già edificate dai suoi genitori, ristrutturando in maniera impeccabile la proprietà, in modo da ricavarne anche confortevoli alloggi in cui pernottare. La piscina è dotata anche di angolo cocktail per trascorrere piacevoli momenti en plein air, degustando un aperitivo accompagnato da finger food direttamente preparati in cucina. La struttura si presta molto bene per ricevimenti e feste private.
Michele De Martino, chef salernitano con un ricchissimo bagaglio di esperienze alle spalle, nelle più rinomate cucine salernitane e della Costiera Amalfitana (l'ultima durata due anni da Casamare a Salerno), ha accettato una nuova scommessa, lasciando la città ma sicuro di ritrovare a Fisciano tutto quello di cui un professionista della cucina ha bisogno: prodotti a Km 0, stimoli e fiducia in ciò che progetta quotidianamente. La degustazione dei piatti, originali, innovativi, capaci di non perdere mai d’occhio la tradizione, è risultata molto convincente.
Soddisfacente e intrigante, nelle sue tonalità amaranto, il cocktail di benvenuto analcolico "Bosco del Venezuela" (frutti di bosco, basilico, lime, zucchero di canna scuro, ginger ale, fava di Tonka), con sfiziosi appetizer dal fascino asiatico e latino, fra cui spicca il calzoncino fritto, simil empanada dominicana, con ricotta, salame e ketchup di San Marzano Nobile come topping.
Le chicche da provare sono però sicuramente la “seppia in carbonara” tra gli antipasti (una tagliatella di crudo di seppia, adagiata su crema cacio e pepe e guarnita con uovo alla Cracco, pancetta croccante e tenacoli fritti, una vera esplosione di sapori e consistenze) e il “riso è Nobile” tra i primi, un piatto apparentemente semplice ma di grande complessità, con base bianca al burro e parmigiano, guarnita poi con crema di pomodoro giallo e di pomodoro San Marzano, e in cima pomodorini arrostiti. Stessa cosa dicasi per la “triglia viene da Livorno”, un sandwich ripieno del rossiccio pesce di scoglio e salsa livornese, adagiato sulla sua bisque e arricchito da una scarolina capperi e olive che non manca mai nella cucina salernitana di De Martino.
Nel menù autunnale, il commensale potrà divertirsi nello scorgere crudi di mare, tartufi neri irpini, ortaggi di stagione, limoni profumatissimi, carni succulente come quelle di maialino, pasta artigianale di leggerissima fattezza, il pescato locale, pani e focacce autoprodotte in abbinamento ad olii cilentani e le aromatiche mediterranee.
Intento ad esporre i suoi piatti, lo chef ha aggiunto: “Adoro Gennaro Esposito, ma la mia è una cucina salernitana, oserei dire quasi antica e di recupero dei vecchi ricettari, in cui tecniche di conservazione come la scapece erano frequenti. A Salerno non esistono tantissimi piatti, ma milza o interiora, scarola, moscardini affogati, ciambotte di verdure e preparazioni in tegame non mancano mai. Qui al Nobi cercherò di riproporre quello che in pochissimi conoscono, a cui darò un tocco di contemporaneità, partendo sempre dalla materia prima che il vasto territorio campano offre. Sto anche pensando a dessert innovativi, tant’è che sto ampliando le mie conoscenze in materia”.
La cantina del Nobi spazia dai vini regionali a quelli nazionali e non mancano bollicine, champagne, grappe, whisky, cognac e passiti. Il dessert consigliato è il “cioccolati e lampone” con bisquit al cioccolato, cremoso ai lamponi, cioccolato fondente e cioccolato bianco, mini-capolavoro di bellezza per occhi e palato. Nobi affonda le sue radici in terreni annaffiati da passione, amore, talento; il suo modus operandi comincia proprio da qui, dalla nobilitazione del territorio e dei saperi agricoli, che diventano emozionali e magneticamente suggestivi.
Annamaria Parlato 30/10/2022 0
La zucca a Salerno e dintorni: lumino ad Ognissanti e "confine" dell'estate
Specie e varietà del genere Cucurbita (famiglia delle Cucurbitacee), la zucca è un ottimo ortaggio, benefico per la salute, a maturazione autunnale, usato per pietanze, minestre e come sofisticante per confetture; le varietà scadenti sono usate invece come foraggi. Introdotta, forse, in Europa dall’America tropicale nel secolo XVI, di cui sarebbe originaria, ha da sempre indicato nel lessico comune, in maniera simbolica, stupidità ma perfino intelligenza.
Lucio Anneo Seneca, nella sua satira Menippea, criticò l’imperatore Claudio definendolo "Zuccone". Il grande scultore Donatello diede vita intorno al 1420 alla statua del profeta Abacuc, conservata nel Museo dell’opera del Duomo di Firenze, soprannominata proprio "Lo Zuccone", in riferimento alla sua evidente calvizie. Quindi, in senso già dispregiativo, la zucca classificava le persone calve con testa sproporzionata e particolarmente rotonda. Per non parlare dell’abuso del termine per indicare persone sciocche e un tantino stupide (spesso si usa l’espressione "Hai poco sale in zucca").
Nella tela intitolata "Banchetto Nuziale" di Pieter Bruegel il Vecchio, del 1568, la zucca viene rappresentata sotto forma di pietanza, quasi di vellutata, e si intravede un popolano che la mangia, seduto, con gusto, accompagnandola a del pane, forse di segale. Ancora, nei ritratti dell’Arcimboldo o nella Fruttivendola di Vincenzo Campi del 1580, la zucca è un elemento di spicco ornamentale, che arricchisce con le sue forme la composizione. Nel XIX secolo, nei quadri di Giovanni Segantini, diventa un ortaggio importante nell’alimentazione popolare e quotidiana, assumendo un ruolo di primo piano.
E da lì nell’immaginario collettivo la zucca inizia ad essere associata a significati più positivi e a diventare proverbiale: “Mangia le zucche in abbondanza e non avrai mal di pancia”. La zucca è in ogni caso un frutto magico, leggendario: in passato, quelle giganti e vuote, venivano usate dai marinai come boe o come salvagente per inesperti nuotatori; nel Medioevo infatti, alcuni racconti descrivono come uomini e donne siano stati salvati dalla corrente di acque impetuose grazie a formidabili zucche.
Per i Celti, antica popolazione del nord Europa, Capodanno non cominciava come per noi il 1° gennaio, bensì il 1° novembre, e veniva celebrato con una grande festa chiamata Samhain, che in gaelico significa "fine dell’estate". I villaggi festeggiavano per giorni, accendendo falò, cantando e danzando sfrenatamente e travestendosi con maschere e costumi spaventosi per tenere lontani gli spiriti maligni. Si diffuse l’abitudine di intagliare volti mostruosi negli ortaggi e nei tuberi più reperibili e di illuminarli dall’interno con un lumino, per renderli più agghiaccianti: in quel caso si trattava in genere di grosse rape, patate o barbabietole.
Per capire come dalle rape si sia arrivati alla zucca di Halloween, bisogna risalire alla metà dell’800, quando una terribile carestia si abbattè sull’Irlanda, spingendo un numero incredibile di irlandesi a emigrare negli Stati Uniti, in cerca di un futuro migliore. Nel Nuovo Mondo, questi emigrati fondarono le loro comunità e mantennero le loro tradizioni, compresa quella dell’All Hallows’ Eve, cioè la vigilia di Tutti i Santi (“hallow” è un’antica parola inglese che significa appunto “santo”).
La tradizione di accendere, in occasione delle festività dei defunti, lumini e candele fuori dalle abitazioni, che venivano collocati in zucche cave, in un’impressionante analogia con la antica festa celtica di Samhain, è attestata soprattutto in Irpinia, nell’avellinese, ma anche nell’area di Salerno. In zone più interne della Campania, i bambini chiedevano direttamente un dono specifico: “Cicci muorti”, ossia i chicchi di grano fatti bollire e poi ripassati nel miele, un dolce povero dalle chiare valenze simboliche (i chicchi di grano rappresentano la vita che rinasce, fertilità e abbondanza).
La zucca, in definitiva, non ha colpito solo l’immaginario collettivo, ma è diventata una vera e propria prelibatezza,tanto da ricoprire ruolo primario in cucina. Durante il periodo freddo dell’anno, la si usa per preparare moltissimi piatti caldi; la si trova, infatti, nella ricetta della minestra con zucca e farro, della pasta e zucca o della zucca e fagioli, piatto tipicamente salernitano, o addirittura sulla pizza. Ottima anche nelle preparazioni dolci come crostate, biscotti e pani speziati.
Annamaria Parlato 25/10/2022 0
Caffè Trucillo fiore all'occhiello dell'economia salernitana e vanto per il Sud
“Se sei una persona di qualità, farai sicuramente un prodotto di qualità. Il nostro caffè è la semplice prova di ciò in cui crediamo” (Matteo Trucillo, Ad)
Dopo due anni di fermo dovuto alla pandemia, SCA Italy, divisione nazionale della Specialty Coffee Association, la comunità più rappresentativa al mondo per i professionisti della filiera del caffè, ha riaperto quest’anno le competizioni nazionali per la selezione degli aspiranti campioni nelle discipline Barista, Latte Art, Coffee in Good Spirits, Brewers, Roasting e Cup Tasters.
La tappa sud è tornata per la seconda volta nell’Accademia Trucillo, a Salerno, dal 18 al 20 ottobre, dove ci sono state le selezioni per tutte le discipline SCA, esclusi Roasting e Cup Tasters. Sostenitori della manifestazionie sono stati Alpro, BWT Italia, Centrale del latte di Salerno, Cupiello, DM Italia, Muma Gin, Vahlrona e sponsor dei giudici Brita Italia. I vincitori: nella categoria Barista, Arianna Peli e Federico Pinna, nel Latte Art Stefano Cevenini e Michele Intravaia, per il Brewers Andre Tomassi e Maria Giovanna Coppola, nel Coffee In Good Spirits Marco Poidomani; si confronteranno poi con quelli delle altre due nelle finali nazionali, in programma dal 21 al 25 gennaio 2023 al SIGEP a Rimini.
Le competizioni nazionali sono servite anche a far conoscere agli addetti ai lavori e alla stampa l’affascinante mondo del caffè e la filosofia aziendale di Trucillo. Oggi alla terza generazione, e presente con i suoi prodotti nei locali più prestigiosi di 40 Paesi nel mondo, Trucillo è un vanto per il territorio salernitano ed è la dimostrazione che il sud lavora, produce e si distingue in avanguardia e tecnologia, offrendo posti di lavoro e garantendo stabilità economica ai propri dipendenti.
Visitando l’azienda, si è avuto modo di analizzare i processi da cui nascono le miscele di caffè Trucillo e partecipare al ricco calendario di appuntamenti di degustazione, conoscenza e indagine approfondita sulle nuove tendenze del caffè, che puntano al vegetale ma anche ai cocktail e alla cucina. Al piano inferiore si presentano in tutta la loro magnificenza l’accogliente sala meeting e riunioni, l’area riservata ai dipendenti, dove viene torrefatto il caffè, e l’isola coffee bar (aperta nelle speciali occasioni) a forma di T vista dall’alto, in cui il barista scende dalla sua pedana e come lo chef viene posto all’attenzione del consumatore, in modo da poterlo osservare mentre prepara caffè e bevande.
«Stiamo lavorando ad una serie di iniziative future, progettate per coinvolgere sia gli addetti ai lavori che il grande pubblico – ha affermato Antonia Trucillo – Il caffè è un universo molto dinamico, vogliamo essere promotori attivi di una vera e propria cultura del caffè, mostrandone anche gli aspetti meno scontati e promuovendo l’incontro creativo con altri settori, dalla pasticceria al vino e al food, dall’arte al mondo della comunicazione e dei social network. Attualmente supportiamo giovani creativi e manifestazioni culturali in città, di cui l’ultima Nouvelle Vague a Palazzo Fruscione».
Settantadue anni di passione, da quando nel 1950 il Cav. Cesare Trucillo inizia a tostare caffè verde nella cantina sotto casa, sulla costa, davanti al mare, proprio al centro del golfo di Salerno, in una casa che ancora oggi è di proprietà della famiglia. Lo affiancano in un secondo momento i fratelli Umberto, Matteo e Vittorio e negli anni gli affari si consolidano, tant’è che all’epoca fondano il Caffè Moka Salerno. L’azienda si afferma sul mercato, ponendo le basi per una realtà commerciale competitiva e qualificata.
Negli anni '80 entra nel team anche Matteo, figlio di Cesare, che con un buon tocco di innovazione, per valorizzare la tradizione, nel 1988 dà un nuovo imprinting all'azienda, trasformandola nell’embrione dell’attuale Caffè Trucillo. Nel 1998 apre i battenti l'Accademia Trucillo, la prima scuola del caffè del centro-sud Italia, un centro di apprendimento internazionale per formare i professionisti del bar, della ristorazione e dell'ospitalità, ma anche per accogliere gli appassionati del caffè. L’Accademia è stata fortemente voluta da Fausta Colosimo, moglie di Matteo.
«Allora, fu un salto nel buio – ha raccontato Fausta - di formazione non si parlava, e allo stesso tempo non esistevano figure professionali che condividessero le proprie conoscenze. Nonostante questo, abbiamo costruito un progetto formativo ambizioso, che è cambiato negli anni in base alle esigenze del mercato e sempre in continua evoluzione». Attualmente è responsabile dell'Accademia Antonia Trucillo, che con la sorella Andrea ed il fratello Cesare rappresenta la terza generazione. Antonia ha una lunga e approfondita conoscenza dell’universo caffè, frutto di numerosi e lunghi viaggi nei paesi produttori, dove ha lavorato sul campo con le comunità di caficultores, ma anche nei luoghi dove si analizza la qualità della materia prima e nei porti da cui parte.
Ha dedicato anni alla più alta formazione riconosciuta nel settore: è stata Trainer AST della Specialty Coffee Association e tra i più giovani Q Grader in Italia, titolo che rappresenta la massima specializzazione nel mondo della formazione del caffè. In Azienda si occupa di qualità della materia prima. La passione per questa si esprime nel suo impegno a divulgarla, sia attraverso l’Accademia che con le attività di marketing e comunicazione.
Andrea Trucillo si occupa di sviluppo dei mercati internazionali e trasformazione tecnologica; si deve a lei il processo di re-ingegnerizzazione e Smart Factory avviato dal 2019 che si sviluppa su 5 fronti: dematerializzazione del lavoro, ottimizzazione dei processi digitali, incremento della produttività, incremento della qualità del prodotto e alimentazione dell’impianto attraverso energie rinnovabili.
Cesare Trucillo, infine, si dedica ai mercati internazionali, con particolare attenzione agli Stati Uniti d’America; è inoltre a capo del progetto che vede l’azienda impegnata nel monitoraggio costante e attività di misurazione dell’impatto sociale dell’attività di famiglia. Caffè Trucillo serve più di 2000 locali in Italia ed esporta il 60% dei suoi prodotti in 40 paesi, grazie ad un'organizzazione commerciale dinamica e ben strutturata, con una squadra di agenti e concessionari in Italia e relazioni di fiducia con distributori all’estero.
Oltre all’Europa, dove l’azienda è impegnata a sviluppare una presenza sempre più radicata, tra i mercati strategici ci sono il Canada, gli Stati Uniti e il Medio Oriente. Tutto parte dalla selezione del caffè verde. La passione per la materia prima ha portato l’azienda ad essere strettamente vicina ai Paesi di produzione, dove Antonia Trucillo si reca personalmente nei suoi viaggi di ricerca, per offrire al consumatore un gusto ineguagliabile, fatto di aromi e culture di terre lontane. Approfondire la conoscenza del caffè in origine è fondamentale per essere consapevoli e perfetti conoscitori del proprio prodotto.
I caffè utilizzati nelle miscele Trucillo provengono da tre diversi continenti: Centro e Sud America, Africa e Asia. Il rigore dei controlli nell'intera filiera ed il rispetto degli standard di qualità sono passaggi fondamentali, che permettono di monitorare il ciclo produttivo con una continua attività di studio e ricerca. Il moderno stabilimento include un laboratorio analisi interno, dotato delle strumentazioni più avanzate del settore.
L’arte della tostatura segue la tradizione inaugurata dal fondatore e costantemente migliorata nei decenni, grazie ad una continua e incessante ricerca tecnologica. Questa fase rappresenta uno dei momenti più delicati nel processo di lavorazione del caffè: il chicco diventa friabile, cambia colore, aumenta di volume e cala di peso, acquistando ricchezza aromatica e differenziandosi nel gusto in base alla temperatura di cottura. Il caffè viene tostato con metodo a convezione, per una torrefazione uniforme e rispettosa delle sue caratteristiche.
La linea professionale si compone di una gamma di nove miscele e per il consumo domestico ci sono quattro miscele in grani, da macinare a casa, quattro miscele pronte all’uso già macinate e i monoporzionati. Trasmettere l’amore per il proprio mestiere, tramandare alle nuove generazioni ciò che la natura con spontaneità ha donato agli esseri umani con cadenze lente nel tempo è quello che si percepisce in casa Trucillo.
Viaggi colorati e profumati si trasformano in sapori, odori, aromi. L’evoluzione di un chicco di caffè che diventa bevanda è un atto poetico, in cui si fondono storia, cultura, arte, tali da rendere “il caffè espresso” un rito tutto italiano, che contraddistingue il Bel Paese nel mondo.