11 articoli dell'autore Federica Garofalo

Federica Garofalo 15/02/2021 0

Alla scoperta dei luoghi della Scuola Medica Salernitana

Vari documenti dei Seicento e del Settecento citano un luogo al di fuori della porta di San Nicola, ubi vulgariter dicitur la Scola Salernitana, in quella che è oggi la località di Canalone, ma che nel 1932 venne identificata con l’attuale Largo Scuola Medica Salernitana. In realtà sono stati molti i tentativi, soprattutto da parte degli eruditi di Età Moderna, di identificare un luogo in cui si riunissero nel Medioevo i maestri e gli studenti della Scuola Medica Salernitana.

La verità è che non ne esiste uno solo, perché il concetto medievale di “scuola” è molto diverso dal nostro, che non prevede una struttura deputata allo scopo, né una rigida organizzazione gerarchica: ed è significativo che le prime testimonianze non parlino di “scuola” ma di “scuole” di medicina salernitana. Un medico particolarmente bravo a insegnare e che raccoglie attorno a sé un gruppo di discepoli costituisce già una “scuola”, e, di solito, insegna a casa propria; e così sarà anche per le prime Università fino circa al Quattrocento.

Ne abbiamo una testimonianza all’inizio del Trecento da Matteo Silvatico, il cui palazzo gentilizio, con relativo giardino utilizzato come un vero e proprio orto botanico, è stato identificato con il luogo in cui sorge l’attuale Giardino della Minerva. Non esistono, però, solo le scuole “private”: esistono anche quelle monastiche, maschili come il monastero di San Benedetto dove nel 1057 fu abate il grande medico e vescovo di Salerno Alfano I, o femminili come il monastero di San Giorgio, al cui interno un documento del 1052 colloca un’infermeria; o, più tardi, quelle legate agli ordini mendicanti, come il convento domenicano di Santa Maria della Porta (l’attuale San Domenico).

Solo alla fine del Duecento, con Carlo I d’Angiò nascerà una vera e propria università (uno studium, come si diceva all’epoca), la cui sede è rintracciabile nel Quattrocento all’interno della Cappella di Santa Caterina in Duomo, le attuali sale San Tommaso e San Lazzaro. La cappella è all’epoca di proprietà della famiglia Solimene, un’illustre famiglia di medici, di cui uno dei suoi membri più illustri, Guglielmo Solimene, agli inizi del Quattrocento ha ricevuto in dono una reliquia della santa dalla regina Margherita di Durazzo, e l’ha deposta nella cappella di famiglia, dove poi è stato sepolto egli stesso.

Ebbene, sappiamo che, almeno dal 1502, questa non è semplicemente una cappella gentilizia, ma è utilizzata anche come aula di lezioni: nell’attuale Sala San Tommaso è collocato lo studium legistarum, in cui si studia soprattutto legge, e nell’attuale Sala San Lazzaro lo studium artistarum, dove si studiano le sette arti liberali. A fine Cinquecento, poi, la famiglia Solimene concede ufficialmente la cappella alle lezioni, in cambio che l’amministrazione cittadina si addossi il pagamento della ristrutturazione dell’edificio, che all’epoca è ridotto veramente male.

Se la cappella di Santa Caterina in Duomo è dunque il luogo in cui nel Cinquecento lo studium di Salerno tiene le sue lezioni, i diplomi di laurea sono tradizionalmente conferiti nella chiesa di San Pietro a Corte, l’antico palazzo longobardo di Arechi. I diplomi sono conferiti, con un cerimoniale complesso e solenne, dal Collegio medico di Salerno, un’istituzione a parte rispetto all’Università, con i suoi propri regolamenti e statuti: i suoi membri devono essere rigorosamente salernitani di nascita o risedenti in città da almeno vent’anni, e sono investiti del privilegio di poter conferire la laurea in medicina valida per tutto il Regno.

Ormai, però, i tempi d’oro della Scuola Medica Salernitana sono ben lontani: nel Seicento addirittura i diplomi non verranno più conferiti nella chiesa di San Pietro a Corte, ma in un “Palazzo Salernitano” non meglio identificato; infine, nel Settecento, una volta conclusa la costruzione del nuovo seminario, l’attuale Museo Diocesano, un contratto ne concede due locali alle lezioni di medicina. È lì che questa istituzione, nel 1812, sarà abolita da Gioacchino Murat.

Leggi tutto

Federica Garofalo 06/02/2021 0

Gli "archi normanni", l'acquedotto medievale di Salerno

Molti pensano che l’imponente acquedotto che svetta tra via Velia e via Arce, volgarmente detto “Ponte dei Diavoli”, sia romano. I Romani, però, non c’entrano nulla, e nemmeno i diavoli che la leggenda vuole lo abbiano costruito in una sola notte, sotto il comando del mago Pietro Barliario. In realtà sono la testimonianza di una città, Salerno, che fin dall’Antichità era nota per essere particolarmente ricca di acque, le cui sorgenti sgorgavano dalle pendici del monte Bonadies e confluivano nel mare affiancando il fiume Irno.

Oggi, molti di questi antichi torrenti sono scomparsi, ma la toponomastica segnala ancora la loro presenza: Fusandola, Lama, Rafastia, Canalone, Mercatello, Mariconda. Tutta questa abbondanza di acqua, e di acqua particolarmente ricca di sali minerali, ha permesso il sorgere di luoghi termali fin dall’antichità romana, e le cui testimonianze sono ancora visibili ad esempio tra San Pietro a Corte e Palazzo Fruscione, e presso l’ex monastero di San Nicola della Palma, ma è stata anche causa di inondazioni e alluvioni che hanno devastato più volte la città, come ad esempio tra IV e V secolo.

Contrariamente a quanto si pensi, la tecnologia di canalizzazione delle acque, e il suo utilizzo per i bagni, non scompare affatto con l’Impero romano. Anzi, in età longobarda, in modo particolare tra X e XI secolo, i documenti ci mostrano che queste falde alimentano canali e mulini, in particolare nella zona orientale di Salerno, per svariate attività economiche, la più famosa delle quali è quella legata alla produzione della ceramica.

Non solo, le carte longobarde ci mostrano fontane e bagni, questi ultimi molto numerosi in città, la maggior parte inclusi in monasteri come quello di San Benedetto e quello San Lorenzo, che le fonti ci dicono addirittura servito da due sorgenti; anche il palazzo di Arechi (San Pietro a Corte) ne è abbondantemente fornito, così come i palazzi nobiliari, come possiamo riscontrare ancora in documenti di XII secolo.

Tra X e XI secolo, durante il regno di Guaimario III e Guaimario IV, Salerno gode di una importanza politica di tutto rispetto, come capitale di un principato che arriva ad estendersi fin quasi alla Calabria, e di una grande vitalità economica, cui si accompagna una fervente espansione edilizia.

È a quest’epoca che risale la prima porzione dell’acquedotto, come attesta un documento del 994; lavoro che sarà poi completato in età normanna, quando, soprattutto dopo la conquista di Salerno da parte di Roberto il Guiscardo nel 1076, lo sviluppo edilizio riprenderà più forte che mai, con la costruzione del Duomo e di Castel Terracena, tanto da cambiare volto alla città. Il poeta Gabriele d’Annunzio, dunque, non aveva tutti i torti a chiamare l’acquedotto “archi normanni”.

Leggi tutto

Federica Garofalo 30/01/2021 0

Conversazioni Scuola Medica, ipotesi legame Salerno-Velia

È iniziato il 28 gennaio alle 18:00, sulla pagina facebook di Salerno Cultura (Comune di Salerno), il ciclo di appuntamenti on-line “Conversazioni sulla Scuola Medica Salernitana”, che, con cadenza settimanale, proseguirà fino al 18 marzo; questa iniziativa è frutto di una collaborazione tra l’Università di Salerno, in particolare del Centro Altea (centro interdipartimentale di studi sulla Scuola Medica Salernitana), il Comune ed altri enti.

Relatori del primo incontro due personalità di primo piano dell’Università di Salerno, Luigi Vecchio, docente di Storia ed Epigrafia Greca, e Amalia Galdi, ordinario di Storia Medievale: a introdurre, il prof. Luca Cerchiai, direttore del Dipartimento di Scienze del Patrimonio Culturale presso l’Ateneo, e l’assessore alla cultura del Comune di Salerno Antonia Willburger.

«La rete che abbiamo messo in piedi sta portando avanti la candidatura della Scuola Medica a Patrimonio immateriale dell’Umanità sotto l’egida dell’UNESCO - sottolinea la dott.ssa Willburger - Questa è un’opportunità unica non solo per tramandare la memoria di questa importantissima pagina del nostro passato alle giovani generazioni, ma anche di renderla un’opportunità di valorizzazione e sviluppo per la città e il territorio. E questo soprattutto per l’attualità dei valori che la Scuola Medica ancora trasmette: integrazione delle culture, parità di genere, attenzione al benessere psico-fisico della persona, e all’educazione dei giovani».

«È un progetto ampio e generoso - osserva dal canto suo il prof. Cerchiai - perché parla sì della nostra identità cittadina, ma anche di valori universali, e può essere un potente aggregatore di interessi. Il nostro obiettivo come Università è dimostrare quanto sia bello studiare e attualizzare un mondo lontano solo nel tempo: la Storia è coinvolgente, e la cultura è coinvolgente, proprio per la sua dimensione trasversale e aperta».

Il tema di questo appuntamento sono le origini della Scuola Medica Salernitana: è possibile che esista un legame con la presunta scuola medica dell’Antichità individuata a Velia? «Non sappiamo nemmeno se a Velia ci fosse una vera e propria scuola medica, gli autori dell’Antichità non ne parlano - risponde il prof. Vecchio - Quel che è certo è che a Velia sono state trovate, tra gli anni ’50 e ’60, tre statue risalenti alla prima età imperiale che raffigurano tre medici vissuti in anni diversi, tutti e tre di nome Oulis, connotati dal curioso appellativo di pholarchos, che non trova riscontro da nessun’altra parte, e che letteralmente significa “capo della caverna”. Da qui si è voluta immaginare l’esistenza di una scuola medica, magari legata ad un santuario di Apollo o di Asclepio, con il suo “caposcuola”. La verità è che non lo sappiamo».

Anche le origini della Scuola Medica Salernitana sono avvolte nel mistero, come sottolinea la prof.ssa Galdi: «Al di là della leggenda dei quattro maestri, riportata dalla rinascimentale Chronica Elini, sulle origini della Scuola Medica Salernitana c’è un vuoto. E ci sono delle domande che ancora non hanno risposta, tra cui proprio il collegamento con la presunta scuola medica di Velia. Addirittura, fino al 1280, quando Carlo I d’Angiò la riconobbe ufficialmente come Università, non si può parlare di una vera e propria “Scuola Medica” salernitana, con una sua organizzazione, ma di “medicina salernitana” o di “medici di Salerno” che, bisogna sottolineare, sono presenti già dal X secolo nelle corti di Francia e Inghilterra».

Il prossimo appuntamento del ciclo è previsto per giovedì 4 febbraio e sarà incentrato sull’importanza dell’acqua nello sviluppo della Scuola Medica Salernitana.

Leggi tutto

Federica Garofalo 21/01/2021 0

Premio "Sichelgaita" al Liceo Tasso di Salerno, il racconto dei docenti

Il 17 dicembre 2020, al liceo classico Torquato Tasso di Salerno è stato attribuito, insieme al Comune, il Premio Internazionale Principessa Sichelgaita, ideato dallo Studio Legale Incutti. A Palazzo di Città, a ricevere il premio, la dirigente scolastica, prof.ssa Carmela Santarcangelo, e la prof.ssa Maria Grazia Crapis, docente di Storia e Filosofia, che sintetizza così le motivazioni: "Il Comune è stato premiato per l’edilizia, noi perché costruiamo ingegni".

La prof.ssa Crapis è reduce dalla Settimana dello Studente gestita per la maggior parte dai ragazzi, e ci fornisce qualche retroscena: "Già quest’estate l’avvocato Incutti mi ha annunciato di voler premiare il liceo. Avevamo sperato di organizzare per l’occasione un evento a scuola, ma le norme per la pandemia hanno deciso diversamente".

Pandemia che lei e i suoi studenti del triennio hanno affrontato con la didattica a distanza, cercando di comprenderne il funzionamento e le strategie migliori, e che continua tuttora; la prof.ssa Crapis non esita a definirla meno efficace di quella in presenza, ma con degli aspetti di grande positività. "Questi aspetti sono legati alla metacognizione e dunque al tempo che ogni singolo studente ha a disposizione per assimilare i contenuti di apprendimento.

Questo tipo di didattica insegna a conoscersi, e a conoscere il proprio personale modo di apprendere, potendo contare su un tempo più fluido, senza il limite della campanella; alcuni ragazzi sono perfino migliorati, proprio perché si sono guardati meglio dentro. Sono convinta che le future generazioni non saranno segnate soltanto negativamente dal periodo Covid, ma anche in modo positivo, con una maggiore consapevolezza di sé".

A proposito di consapevolezza, la prof.ssa Crapis nota che oggi i suoi studenti hanno una consapevolezza maggiore - rispetto al passato - della storia della loro città, e dunque anche di personaggi come Sichelgaita. "Li portiamo in luoghi come i Giardini della Minerva, sfruttiamo gli spunti che ci danno i manuali scolastici, ospitiamo anche scrittori salernitani come Dorotea Memoli Apicella, facciamo del nostro meglio perché conoscano il passato del loro territorio, cosa che quando io ero studentessa non era comune".

E il Premio Sichelgaita potrebbe essere un trampolino di lancio anche in questo senso, magari partendo da una riflessione tra docenti e studenti.

Leggi tutto

Federica Garofalo 11/01/2021 0

Progetto Trotula, la Scuola Medica Salernitana a misura di bambino

Non si tratta soltanto di un libro per bambini, la fiaba "Trotula e il giardino incantato": quello messo in piedi da Roberta Pastore, Anella Mastalia e Valerio Calabrese è un progetto molto più ampio, che include un sito web tutto suo, una webserie, gadgets in tema, e addirittura la fondazione di una casa editrice, la Talea.

Lo scopo è agganciare un pubblico di bambini e trasmettere loro, al di là del personaggio storico di Trotula, la più nota rappresentante femminile della Scuola Medica Salernitana, i suoi valori e renderli consapevoli del passato luminoso della Salerno medievale, città della medicina.

Di tutto questo è convinta l’architetto Roberta Pastore, che vanta collaborazioni con Mario Cucinella e Renzo Piano, e si è tuffata con entusiasmo in quest’avventura per lei un po’ insolita, spinta da due incontri importanti: "Il primo avvenne tanti anni fa, negli anni del liceo classico, con la mia professoressa, Dorotea Memoli Apicella, che mi fece conoscere Trotula, e il secondo è avvenuto nel corso di un recente trasloco, durante il quale ho ritrovato un libro di Pina Boggi Cavallo, che tanto si occupò di questo personaggio. Ho così deciso che una storia dovesse essere raccontata, e raccontata in modo 'pop', in modo da poter essere seminata in un terreno fertile: e quale terreno più fertile dei bambini?".

I tre soci si sono messi così a lavoro, praticamente autotassandosi, e coinvolgendo altre professionalità come quella di Ernesto Giacomino, che ha curato i testi, e di Federica Cafaro, che ha realizzato le illustrazioni. "Abbiamo lavorato molto in sintonia, anche se a distanza, a causa della pandemia - scherza Roberta Pastore - La fiaba che ne è venuta fuori parla non solo di Scuola Medica Salernitana e di un giardino incantato, il giardino di Minerva, la figlia di Trotula, ma di mare e di accoglienza attraverso una sirena di nome Ory, venuta da lontano". Non a caso, una parte del ricavato della vendita del libro finanzierà borse di studio per ragazze in Kenya attraverso l’ONG Trame Africane.

"La risposta è stata molto buona, non solo da parte dei bambini, ma anche degli adulti - racconta Roberta Pastore - Abbiamo ricevuto messaggi di genitori e nonni che, dopo aver regalato il libro a figli e nipotini, hanno deciso di leggerlo anche loro; per questo noi lo consideriamo un libro adatto a tutte le età, dai 7 ai 110 anni. Ora il nostro prossimo obiettivo è distribuirlo in tutta Italia". E magari anche all’estero, attraverso un’edizione in Inglese? Chissà...

Leggi tutto

Federica Garofalo 03/01/2021 0

La leggenda di Pietro Barliario, mago salernitano

Gli eruditi del Seicento, che per primi parlano di lui, lo chiamano in diversi modi (Barliario, Baliardo, Baialardo, Baliabardo), è stato perfino confuso con il grande filosofo francese Pietro Abelardo, ma la storia è pressappoco simile. Pietro Barliario, maestro di medicina, visse nella Salerno del XII secolo e sviluppò una propensione particolare per la magia e la negromanzia; soggiogando i demoni alla sua volontà, fece costruire il porto di Salerno, lasciato incompiuto per il canto di un gallo sfuggito allo sterminio da lui ordinato; in una sola notte fece innalzare i cosiddetti “archi dei diavoli”, ovvero l’acquedotto medievale che ancora oggi si può vedere tra via Velia e via Arce.

Un giorno, però, due suoi nipoti giovinetti, in assenza dello zio, aprirono di nascosto i suoi libri di magia nera, e ciò che vi era scritto li terrorizzò talmente che caddero morti entrambi; al suo ritorno, Barliario scoprì l’accaduto, e, divorato dal rimorso, bruciò tutti i suoi libri di negromanzia e si rifugiò nel monastero di San Benedetto, dove rimase prostrato in preghiera per tre giorni e tre notti implorando perdono. Alla fine, arrivò la risposta: il crocifisso di legno chinò la testa in avanti in segno di misericordia.

Da allora, Barliario vestì l’abito benedettino e rimase nel monastero, dove morì nel 1149 all’età di 93 anni. Non sappiamo come questa leggenda sia nata: Antonio Mazza, priore del Collegio Medico di Salerno nella seconda metà del Seicento, afferma di aver visto la sua epigrafe funeraria, con scritto in Latino “Questo è il sepolcro di Maestro Pietro Barliario”; il suo contemporaneo Pompeo Sarnelli, vescovo di Bisceglie e grande erudito, riporta una cronaca scritta dall’abate Roberto di San Benedetto nel 1403 che sarebbe la prima testimonianza in assoluto della leggenda.

Purtroppo entrambe queste testimonianze sono andate perdute, e oggi non ci è così permesso verificarle. Possiamo però dedurre che si tratta di una “leggenda erudita”, cioè una leggenda che non nasce dal basso, dal popolo, ma dalle opere degli intellettuali, e solo in un secondo momento arriva al popolo. È curioso che la leggenda di Barliario sia arrivata fino in Abruzzo, dove si attribuisce ai diavoli, comandati da “Baialardo”, la costruzione della Via Lattea di Casoli (Chieti).

Nell’Ottocento, si aggiunge il particolare che il miracolo del Crocifisso di San Benedetto avrebbe dato origine alla Fiera di Salerno, detta anche “Fiera del Crocifisso”, che si teneva in concomitanza delle due feste del patrono San Matteo, a maggio e a settembre; la prima testimonianza della fiera, però, citata anche da autori del Trecento come Franco Sacchetti, si data però attorno al 1260, cioè più di un secolo dopo la presunta morte di Barliario.

Fino all’Ottocento, inoltre, era in uso anche il detto dialettale che, per dire a qualcuno che ne aveva fatte di tutti i colori, recitava “N’haje fatte cchiù ttu ca Bajalardo”, “Ne hai fatte più tu che Baialardo”. Forse l’unica cosa concreta che ci rimane di questa leggenda è il “Crocifisso del miracolo”, il crocifisso ligneo di XII secolo oggi esposto al Museo Diocesano di Salerno.

Leggi tutto

Federica Garofalo 24/12/2020 0

La tradizione del Natale a Salerno fra leccornie, "cunti" e rituali

Molti pensano che il Natale vissuto a Salerno non sia altro che quello vissuto a Napoli “in scala ridotta”: in realtà delle differenze ci sono, quello salernitano è un Natale forse più “ancestrale” e “tenebroso”. Certo, anche a Salerno tradizionalmente scendono gli zampognari per la Novena di Natale, i botti fanno parte del paesaggio sonoro dell’ultimo scorcio di dicembre, e nelle pasticcerie (o “spezierie manuali”, come venivano chiamate a fine Ottocento) campeggiano susamielli, roccocò, raffiuoli, mostaccioli, divino amore, paste reali e cassate della tradizione napoletana.

I dolci casalinghi natalizi tipicamente salernitani, tuttavia, sono leggermente più semplici e rustici. Anzitutto le zeppole, ciambelle fritte e guarnite di zucchero o miele, addirittura un’antica credenza vuole che l’esplosione di una zeppola troppo gonfia porti male, e per scongiurare il pericolo si debba sputare nel fuoco e recitare la scaramanzia: “Puzzate jettà ‘o sango!” [“che possiate buttare il sangue”]; poi ci sono i cazuncielli, sorta di panzerotti di pasta dolce ripieni di cacao e castagne e poi fritti e bagnati di miele; e gli immancabili struffoli, forse di origine longobarda data l’origine germanica della parola, palline di pasta fritte e bagnate nel miele, tra l’altro ne esiste anche una versione salata condita con lardo e aglio.

La cena della vigilia di Natale (che comincia circa alle 19) è, come a Napoli, a base di pesce, venduto prima a via Porta di Mare, la cui piazza era chiamata appunto “Pietra del Pesce”, poi a Piazza Flavio Gioia. Il primo piatto sono gli immancabili spaghetti con le vongole (“lupini” prevalentemente) o, in mancanza di queste, con la tipica colatura di alici della Costiera Amalfitana; segue il capitone fritto, la frittura mista di pesce e il baccalà fritto o all’insalata; d’obbligo per contorno l’insalata “di rinforzo” (cavolfiore e sottaceti con olive, capperi e acciughe) e i broccoli di Natale; per dessert, insieme ai dolci sopra nominati, frutta secca a volontà.

Dopo cena, si aspettava la mezzanotte giocando a tombola o a “sette e mezzo”, mentre i bambini ascoltavano i cunti che, dalla bocca della nonna o dell’anziana zia, raccontavano loro storie di spiriti, streghe, diavoli e munacielli; al momento della nascita del Cristo, saranno proprio loro a portare in processione il Bambinello nel presepe al canto di “Tu scendi dalle Stelle”. Una tradizione tipicamente salernitana vuole che le donne compiano un “rituale di purificazione” girando per le stanze della casa con un braciere pieno d’incenso recitando formule propiziatorie.

Eccone una:

Uocchie, maluocchie,
frutticielle all'uocchie;
schiatta 'a mmiria
e ccrepa lu maluocchio.
Maluocchio, maluocchio,
chi tene mmiria pozza schiattare.
Chesta è 'accetta
ca ogne mmale annetta,
chesta è 'a ronga
ca onne mmale stronga.
Uocchio, maluocchio,
ddoje uocchie afferrano,
e ttre uocchie levano;
lu Patre, lu Figlio e lu Spiritussanto!
Fremmate, uocchio,
nu gghì cchiù 'nnanze!

Attenzione però ai bambini che nascono in questa notte: potrebbero diventare lupi mannari!

Per saperne di più: Francesco Maria Morese, L’Eredità degli Antenati, Cosenza, Luigi Pellegrini Editore, 2019.

Leggi tutto

Federica Garofalo 16/12/2020 0

Scuola Medica patrimonio Unesco, Willburger: "Occasione da non perdere"

Lo scorso 6 novembre è stato firmato il protocollo d’intesa tra il Comune di Salerno (ente capofila), l’Università degli Studi di Salerno, la Soprintendenza e la Fondazione Scuola Medica Salernitana: lo scopo è varare tutta una serie di progetti coordinati che dovrebbero portare, entro il 22 marzo 2021, alla presentazione all’UNESCO della candidatura ufficiale della Scuola Medica Salernitana come Patrimonio Immateriale dell’Umanità.

Un passo importante, di cui chiediamo conto all’assessore alla cultura del Comune di Salerno, Antonia Willburger, di origine austriaca, alle spalle un lungo curriculum come organizzatrice di eventi. "Il nostro obiettivo è sì parlare di Storia, ma parlarne al presente. La Scuola Medica Salernitana rappresenta l’identità della nostra città, soprattutto per i valori di interculturalità e di inclusione, anche verso le donne, di attenzione al benessere, di sostenibilità che porta con sé".

L’idea di candidare Salerno a Patrimonio Immateriale dell’Umanità è nata l’anno scorso durante la Borsa Mediterranea del Turismo Archeologico di Paestum, grazie all’incontro di Erminia Pellecchia, giornalista del “Il Mattino” e storico dell’arte, con il prof. Luca Cerchiai, docente di Etruscologia e Archeologia Italica all’Università di Salerno.

"Me ne parlarono, e io fui subito entusiasta dell’idea - racconta la dott.ssa Willburger - Era un’occasione da non perdere sia per la valorizzazione del patrimonio culturale del territorio sia perchè è un’opportunità di sviluppo economico della città, ma avrebbe potuto realizzarsi solo creando una rete tra le varie realtà che contraddistinguono Salerno, dall’Ordine dei Medici, l’Archivio Storico e tante associazioni culturali. Da austriaca di nascita, è per me quasi automatico il paragone con la realtà di Salisburgo, che sul semplice fatto che proprio lì sia nato un grande compositore come Mozart ha saputo creare un intero indotto non solo turistico ma anche economico. A Salerno invece c’è un grande vuoto".

Antonia Willburger è convinta che la Scuola Medica sia un patrimonio per la cittadinanza non solo in senso storico e culturale, ma anche civico: "Dobbiamo adattare la Storia al presente, estrapolandone i valori. E per fare questo non è sufficiente riunire le istituzioni, ma è necessario creare una comunità, perché le istituzioni sono fatte di persone; e in questa comunità bisogna anche attrarre le associazioni che sulla tematica della Scuola Medica Salernitana hanno sempre lavorato, mettendole in rete".

L’idea della dott.ssa Willburger è trovare anche degli agganci fuori da Salerno, magari creando un Festival, come si sta facendo per il progetto “Medieval Times” di Gaetano Stella che, attraverso la rievocazione storica della leggenda di Isabella, ha portato la Scuola Medica e la Dieta Mediterranea ad Hannover: il concetto è, comunque, che la Scuola Medica Salernitana debba uscire dall’Università, scendere tra la gente, parlare di contaminazioni.

"Abbiamo già previsto, appena le chiusure per la pandemia lo permetteranno, un ciclo di conferenze nei luoghi della Scuola Medica; a gennaio, poi, inizieremo a coinvolgere le scuole, con una ricerca sulla toponomastica; abbiamo in programma attività di ricerca universitaria con studenti e laureandi, e la creazione di prodotti 'pop' come un gioco da tavolo e un libro di fiabe. L’obiettivo è quello di creare fermento e coscienza tra i cittadini che questo passato è ancora attuale e può rendere Salerno una città culturalmente viva".

Uno dei possibili candidati ad entrare in questa rete è sicuramente la Biblioteca Provinciale di Salerno, la quale, per l’occasione, si sta “rifacendo il look”, guidata dal Presidente della Provincia, Michele Strianese: "A causa della riforma Delrio del 2014, che fra l’altro toglieva le competenze sui beni culturali alle Province, la Biblioteca Provinciale mancava da anni di adeguate risorse, sia finanziarie, sia umane - spiega Strianese - e anche la struttura aveva bisogno di lavori urgenti di risistemazione. Ed era un vero peccato, perché la biblioteca custodisce testi di primo piano, anche per quanto riguarda la Scuola Medica Salernitana, come il manoscritto duecentesco della Practica Brevis di Giovanni Plateario.

Come Provincia ci siamo mossi su più fronti per farla ripartire. Anzitutto abbiamo avuto il sostegno della Regione, che ci ha concesso fondi per i lavori di ristrutturazione, e abbiamo stipulato una convenzione con il Comune di Salerno e la SCABEC (Società Campana per i Beni Culturali) che fornirà assistenti di sala per tenere aperta la biblioteca e provvederà anche nell’immediato ai necessari lavori di manutenzione.

Sempre attraverso SCABEC - conclude Strianese - provvederemo alla digitalizzazione di parte del patrimonio librario. E con un finanziamento MIBACT il nostro settore Pianificazione strategica e sistemi culturali, diretto da Ciro Castaldo, ha appena acquistato volumi di storia, arte e letteratura riguardanti l’Italia Meridionale con particolare riferimento al nostro territorio e alla Scuola Medica".

Sono stati infatti acquistati volumi come la collana dedicata alla Scuola Medica Salernitana edita dalla SISMEL, i volumi di Erika Maderna pubblicati dalla Aboca, le pubblicazioni a cura del Centro Studi sull’Alto Medioevo di Spoleto, e quelle dello storico della medicina Giorgio Cosmacini. Ci si fermerà qui oppure la Biblioteca Provinciale intende davvero entrare nella rete che auspica l’assessore Willburger? Forse basterà aspettare per scoprirlo.

Leggi tutto

Federica Garofalo 07/12/2020 0

Accademia Danze Orientali a San Severino, Claudia Soheir tra Mediterraneo e pregiudizi

La sua Accademia di Danze Orientali a Mercato San Severino il prossimo maggio festeggerà dieci anni tondi. Claudia Soheir, però, insegnante di Storia e Filosofia al liceo scientifico Tito Lucrezio Caro di Sarno, non è solo ciò che noi potremmo definire un po’ superficialmente “una maestra di danza del ventre”: è una studiosa della cultura dell’Egitto e in generale del Medio Oriente, della quale la danza è solo un aspetto, tanto da essere direttrice artistica della manifestazione “Un Ponte sul Mediterraneo” ad Agropoli.

Una cultura che Claudia conosce bene perché lei in Egitto ci ha vissuto: "Dopo averlo visitato per due volte in precedenza, nel 1999 comprai una casa a Hurgada, sulla costa del Mar Rosso - racconta - e fu lì che mi innamorai delle danze orientali. Io venivo dalla ginnastica ritmica e non conoscevo niente di questo mondo. Per dieci giorni seguii un corso intensivo insieme alla ballerina Atef; poi, una volta tornata in Italia, volli approfondire le danze orientali seriamente, e così ho studiato a Roma con Maryem Bent Anis, prestigiosa artista e insegnante di origine tunisina. Perché, diciamolo chiaro, quello delle danze orientali è uno studio vero e proprio, e anche molto corposo, paragonabile al conservatorio, non limitato alla sola parte fisica".

Da allora, Claudia torna in Egitto due volte l’anno per più di un mese, dove ha studiato per anni bellydance (conosciuta da noi come "danza del ventre") con Madame Raqia Hassan, a settant’anni ancora un’autorità in materia come indica il titolo, molto diffuso in Egitto tra le maestre di qualsiasi arte. Non solo, è entrata in contatto anche con il folklore egiziano, che ha studiato con Madame Fifi el-Said, maestra e coreografa della troupe nazionale egiziana “Reda Troupe” che si esibisce anche presso il teatro dell’Opera del Cairo.

"La cultura egiziana è cambiata moltissimo dagli anni ’80 - racconta - Allora era quasi impossibile trovare una donna con il niqab (il velo integrale di origine saudita). Dall’inizio del 2000 ha cominciato a sorgere invece, soprattutto tra gli strati più bassi della popolazione, un sentimento di ostilità nei confronti dell’Occidente, che ha creato in noi un’idea distorta della cultura egiziana, e in generale del Medio Oriente.

Oggi, con Al-Sisi, le cose stanno migliorando di molto, e la bellydance, dopo un periodo di “proibizionismo” soprattutto con Morsi, ha potuto di nuovo essere insegnata, purché all’interno di associazioni, per non incorrere in guai con la polizia. La vera cultura egiziana è molto più tollerante della nostra: lì, i musulmani convivono con la ricca e antica comunità cristiana nel più grande rispetto reciproco, negli stessi quartieri, fin sullo stesso pianerottolo. Basti pensare che, durante il ramadan, una famiglia cristiana con amici musulmani non oserebbe mai cucinare il maiale con le finestre aperte, e lo stesso rispetto hanno le famiglie musulmane durante la quaresima".

La stessa idea distorta ce l’abbiamo a proposito del folklore egiziano: "Gli abiti tradizionali, soprattutto quelli delle donne, sono molto colorati, veli compresi: il nero è d’importazione saudita, o caratteristico soltanto della Nubia, nell’estremo Sud dell’Egitto. Le donne passano giornate intere a farsi belle, a truccarsi con l’henné, e ballano tantissimo. Le danze più diffuse sono le baladi, le cui movenze sono in parte riprese dalla bellydance, che è un po’ il nostro 'pop', solo ad altissimi livelli: una delle sue massime rappresentanti, Oum Khaltoum, negli anni ’60, era conosciuta come la 'Callas d’Egitto' (e in effetti si conobbero anche). Per quanto riguarda le danze etniche, insegnate nelle accademie, spesso sono state stravolte e sono diventate danze da teatro".

Per non parlare della bellydance, la 'danza del ventre', che ha una storia tutta particolare, e più recente di quanto pensiamo: e gli harem non c’entrano niente. "La bellydance l’hanno portata in Europa i soldati di Napoleone - rivela Claudia - i quali, durante la campagna d’Egitto del 1798-1801, entrarono in contatto con le donne dell’etnia 'zingara' dei gawasi e con le loro movenze sensuali. Alcune di queste donne furono portate in Francia dove, nel corso dell’Ottocento e del primo Novecento, fu creata la bellydance vera e propria, con star internazionali come l’americana Fahreda Mazar Spyropoulos detta Little Egypt o la ben più nota Mata Hari (Margaretha Geertruida Zelle, olandese).

Poi accadde che, negli anni ’20 del Novecento, un’imprenditrice libanese che aveva vissuto in Francia, Badia Masabni, affascinata dai cabaret occidentali, pensò di aprire un locale simile a Il Cairo, il Casinò-Opéra, nel quale scritturò ballerine che aveva fatto studiare in Francia. Il successo fu immediato e diede vita a tutta una serie di locali dedicati alle esibizioni di bellydance, anche malfamati a volte. Così si è creata tra noi occidentali la leggenda che una danza le cui movenze si ispirano alla cultura egiziana, anche per le emozioni che trasmette, ma il cui 'contorno' è stato creato ad arte proprio in Occidente, facesse parte del folklore egiziano".

Ed è questa una delle ragioni per le quali Claudia ha aperto la sua accademia a Mercato San Severino: il fastidio di vedere usata la bellydance in modo improprio da palestre e agenzie di viaggio, senza darsi la pena di approfondire tutto quello che c’era dietro. All’Accademia di Danze Orientali di Mercato San Severino, infatti non si insegna solo quella, ma si tengono anche corsi di burlesque e di bollywood.

Ma chi si avvicina a questo tipo di discipline? "Di solito ci sono due filoni di allieve: il più nutrito è quello che approccia incuriosito dalla cultura araba, fra le mie allieve ho avuto anche tante musulmane, italiane e arabe; poi ci sono alcune, soprattutto ragazzine, che pensano che imparare la bellydance significhi fare le 'cubiste', e queste in verità durano poco. Purtroppo, dallo scorso anno, anche la mia attività soffre ed è chiusa per la pandemia".

Claudia tiene molto a distinguere le sue due “vite” di maestra di danza e di insegnante di liceo, nella sua accademia non si trova nessuna delle sue allieve del Lucrezio: tuttavia, ai ragazzi dell’ultimo anno tiene un corso facoltativo sul mondo arabo, proprio per accrescere nei ragazzi la conoscenza di quel mondo e aiutarli dunque a capire che il rapporto tra le due sponde del Mediterraneo non è destinato a sfociare per forza in uno “scontro di civiltà”.

Leggi tutto

Federica Garofalo 30/11/2020 0

Claudio & Diana: gli "ultimi romantici" da Salerno alla RAI

Si sono conosciuti da adolescenti e non si sono più lasciati: Diana Ronca e Claudio De Bartolomeis, Salernitani IGP, coppia sul palco e nella vita, lei cantante e pianista, lui chitarrista e percussionista, conosciuti semplicemente come “Claudio & Diana”. “Ultimi Romantici” secondo il giornalista Luigi Coppola, che così ha intitolato la loro biografia uscita nel 2018 per i loro trent’anni di musica insieme: musica che è la canzone classica napoletana, il simbolo stesso nel mondo del sentimento e della passione.

"Quando ci chiedono 'Qual è il vostro lavoro?' e noi rispondiamo 'Musicisti', la domanda successiva - scherza Diana - è quasi sempre 'E il lavoro vero?'. Questo la dice lunga sulla considerazione di cui gode attualmente il mestiere di musicista". Eppure non tutti possono vantare un curriculum come il loro: una tournée con Pupo nel 1987 (in realtà avrebbe dovuto esserci solo Diana come pianista, Claudio si aggregò per gelosia in qualità di percussionista, come fa notare lei ridendo), anni di attività da musicisti di piano bar con l’Ensemble Note Mediterranee, finché una sera scatta la passione per la canzone classica napoletana.

È Diana a raccontarlo: "Durante una serata in un locale a Cava, ci fu chiesta la dedica di una canzone direttamente al tavolo, una vera e propria 'posteggia', ma con il pianoforte come avremmo potuto farlo? Per fortuna Claudio, con prontezza di spirito, tirò fuori la chitarra e la canzone che ci fu chiesto di dedicare era 'Cu’mme' di Enzo Gragnaniello. Da quel momento il nostro modo di vedere la musica cambiò radicalmente".

E cambia ancora di più con un incontro molto speciale: "Pochissimo tempo dopo, ci chiamarono per una festa a San Giuseppe Vesuviano, ma solo quando arrivammo lì ci rendemmo conto che il festeggiato altri non era che Roberto Murolo. Cantò persino accompagnato da noi, senza microfono: 'Se me vonno sentì, se stanno zitti', disse, e questa fu una grande lezione anche per noi".

E infatti così suonano oggi, Claudio e Diana: niente microfoni né altoparlanti, solo voce e chitarra, a volte mandolino, violino o percussioni, ma tutto in acustico, sia che si tratti di serenate, sia che si tratti di posteggia napoletana. Un repertorio amato in tutto il mondo, come dimostra la presenza di tedeschi, giapponesi, israeliani, irlandesi ai loro concerti.

"Una sera suonammo per una cena di attori americani all’hotel Cipriani di Venezia - racconta Diana - e persino loro conoscevano Cu’mme, commuovendosi fino alle lacrime. Noi facciamo anche incontri nelle scuole per parlare della canzone classica napoletana, e percepiamo la sorpresa dei ragazzi di fronte a un repertorio che loro si aspettano sia 'noioso', ma in realtà attualissimo".

D’altronde lo stesso Lucio Dalla affermò che, di fronte a “Era de Maggio” di Salvatore Di Giacomo e Mario Pasquale Costa, “Imagine” di John Lennon diventava il rumore di un armadio. "Noi non abbiamo avuto l’onore di conoscere Lucio Dalla - dice Diana - ma in compenso abbiamo avuto molti incontri importanti, da Catena Fiorello a Maurizio Costanzo, a Vincenzo Mollica, che ci ha intervistati per il TG1. Fino all’allora direttore del TG2 Marcello Masi che ci invitò in studio, attratto dal nostro video sulla canzone di Pino Daniele 'Terra Mia' dedicato alla Terra Dei Fuochi: da allora su RAI2 siamo praticamente di casa, e con la giornalista Marzia Roncacci è nata una vera e sincera amicizia".

Ma è con la gente comune che si instaura il rapporto più forte, ad esempio con le coppie che commissionano le serenate, che sia quella classica qualche giorno prima del matrimonio, ma anche per chiedere l’amata in sposa, in scenari da sogno come la Costiera Amalfitana. Ma non solo: "Un giorno ci chiamò da Livorno un innamorato disperato - racconta Diana - Dopo averle tentate tutte per riconquistare la sua amata, volle giocare anche la carta della serenata. Fu un momento molto commovente. Ogni volta rimaniamo sbalorditi dai gesti di queste persone, che per amore sono capaci di inventare cose meravigliose".

Claudio e Diana, però, non sono una coppia di sognatori "con la testa tra le nuvole": non dimenticano il problema terribile della violenza sulle donne, cui hanno dedicato un video sulle note della canzone “Amaro è ‘o bbene” di Sergio Bruni e Salvatore Palomba: come a dire, romantici sì, ma con i piedi per terra.

Leggi tutto