Salerno, Giagiù è la pizzeria simile ad un paesaggio affrescato
Pecoraro, Manzo e Giannattasio insieme per l’autonomia enogastronomica del Sud Italia
Annamaria Parlato 22/06/2024 0
Da Via Velia al Lungomare Trieste, il trasferimento in quella che è stata la Sala Varese di Palazzo Natella è avvenuto lo scorso febbraio e con la stessa intensità di prenotazioni. La pizzeria Giagiù si riconferma un punto solido della città di Salerno, nel panorama delle pizzeria di qualità che portano avanti la filosofia del prodotto made in Sud e del servizio di sala impeccabile, quasi da ristorante di alta cucina.
Allegra, colorata, stilosa e con una grande cantina a vista (sì perché oggi la pizza si abbina ai vini e alle bollicine), Giagiù è la pizzeria gestita dal maestro pizzaiolo Ciro Pecoraro, assieme ai soci Giancarlo Manzo e Andrea Giannattasio. Questa pizzeria offre non solo un pasto, ma un'esperienza completa che unisce la gastronomia alla scoperta del territorio, delle sue tradizioni agricole, dei prodotti di ben otto regioni del Sud Italia e di alcune usanze antiche, che grazie alla pizza possono ritornare in auge.
Il nome richiama il tipico pomodorino giallo del Vesuvio, una varietà autoctona che si era persa poiché soppiantata dal pomodorino rosso del piennolo, il cui sapore è delicato e dolce, con una leggera acidità che conferisce freschezza. È meno acido rispetto ai pomodori rossi, il che lo rende ideale per chi cerca un sapore più amabile e meno intenso. Così si legge sulla parete centrale del locale, in un bel medaglione rosso e beige: “Un giorno un contadino del vesuviano, tra le classiche piante del piennolo rosso, trovò una pianta di pomodorino giallo e pensò di dare a questo insolito pomo d’oro il nome della sua nipotina Giulia. Da qui “giallo di Giulia” o più semplicemente Giagiù”.
Questo frutto dorato è il protagonista di alcune pizze presenti in carta, ma può diventare anche la base su cui adagiare fritti e altre prelibatezze. Giagiù potrebbe essere ribattezzata come "Ambasciata del Sud", una pizzeria che va oltre la semplice ristorazione, rappresentando un vero e proprio ambasciatore della cultura e della tradizione meridionale. La qualità eccellente degli ingredienti, l'attenzione ai dettagli e l'atmosfera unica rendono la permanenza qui un'esperienza da provare. Ideale per chi desidera immergersi nei sapori autentici del Meridione e scoprire le ricchezze gastronomiche del salernitano.
Il personale è accogliente e preparato, sempre pronto a raccontare le storie dietro ogni piatto e a consigliare i migliori abbinamenti con vini regionali e birre artigianali. La passione per la cultura meridionale traspare in ogni gesto e parola. Ogni morso della pizza profumata, fragrante e dal cornicione ben evidente, è un viaggio tra i sapori autentici, la farina è macinata a pietra, garantendo un impasto leggero, scioglievole e digeribile grazie alla lunga lievitazione.
Pecoraro sottolinea: “Il mio impasto nasce da anni di sperimentazioni ed è il frutto di un blend di farine grezze, tempi di maturazione, alta idratazione e temperatura di cottura; procedure tutte meticolosamente studiate in ogni dettaglio. Il risultato è una pizza dal cornicione lievemente pronunciato, dall’anima soffice, è più simile ad un paesaggio affrescato, ad un racconto tramandato da secoli. Nelle mie pizze rivivono le miriadi di influenze culturali che hanno pervaso il Mediterraneo, dalla Magna Grecia al passato più recente. Se dovessi definire il mio lavoro con un sostantivo, non potrei che scegliere la parola cura”.
E infatti anche i nomi si scelgono con cura, stimolano la fantasia del commensale, esaltano i ricordi, evocano la storia appresa sui banchi di scuola come per Pitagora, Omaggio al Re, il ‘700 Napoletano, Apulia 1956. L’invito è quello di munirsi di forbici adagiate sul tavolo per tagliare la pizza, ma la fetta è talmente elastica che le mani sono più che sufficienti e parte l’assaggio di “Giagiù: Il Sogno”, ma anche la domanda spontanea: “Sto mangiando una pizza o sorseggiando un caffè espresso? Si perché la pizza, nata grazie alla suggestione di un sogno, viene farcita con pomodorino giallo Giagiù confit, pecorino siciliano DOP, fiordilatte di vacca Jersey, pancetta del Vallo di Diano, olio evo cilentano e in uscita polvere di caffè e aria dello stesso che a cucchiaiate viene disposta al centro della pizza direttamente da una Moka gigante napoletana.
Al primo morso, si percepisce la delicatezza dell’impasto e la dolcezza dei pomodorini gialli, a seguire la cremosità del fiordilatte che avvolge il palato. La pancetta croccante e il pecorino aggiungono profondità e intensità, mentre le note tostate e leggermente amare del caffè emergono come un intrigante contrasto, completando il quadro sensoriale con un finale aromatico e persistente. L'aria di caffè è una schiuma leggera che infonde un aroma delicato di caffè, aggiungendo una dimensione olfattiva unica alla pizza. Inoltre, alcuni di questi ingredienti, in purezza, arrivano su un rettangolo di pizza in miniatura, una mattonella, prima della pizza vera e propria, per far capire a chi degusta cosa troverà sul disco lievitato.
Si consiglia anche l’assaggio della frittatina di pasta alla Nerano e del Canapaccio croccante, un latticino dalla consistenza compatta ma cremosa, ottenuto dal latte di bufala con l’ausilio di tecniche innovative, con note affumicate ricavate da una serie di passaggi in tela di canapa che terminano col trattamento a freddo nei fumi bianchi della paglia delle terre cilentane. Il latticino viene panato e fritto e adagiato su crema di pomodorino giallo e guarnito con salsa agrodolce di pomodoro verde e note di zenzero, gocce di confettura di cipolla e malvasia. A questi piatti si può abbinare una birra artigianale sarda “Mutta Affumiada” del Birrificio di Cagliari, nata dal perfetto connubio tra il malto affumicato e le bacche di mirto essicate, che la rendono interessante e di facile ricevibilità. Le note del mirto, dal sentore erbaceo e leggermente balsamico, sono percepibili nella seconda fase della bevuta.
Prima di andar via, ma con la voglia di ritornare presto per vivere nuove esperienze tutte meridionali, imperdibile il “TiramiSud”, un tiramisù in barattolo rivisitato con cacao in polvere, crosta croccante al cioccolato di Modica, crema di ricotta di bufala e biscotto di Castellammare di Stabia bagnato nel caffè. “Quando vai da Giagiù piangi due volte: quando arrivi e quando te ne vai”, sicuramente senza rimpianti.
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Redazione Irno24 27/10/2023
"In Regionale con gusto", imperdibili tappe nell'itinerario da Napoli a Salerno
Si chiama "In Regionale con Gusto – Scoperte enogastronomiche a portata di treno" il nuovo viaggio su rotaia capace di fotografare le bellezze italiane dal finestrino di un treno: viste privilegiate dai treni del Regionale di Trenitalia, che ogni giorno collegano capillarmente i piccoli e grandi centri italiani, in un viaggio alla scoperta delle bellezze enogastronomiche dei dintorni di ogni regione.
Il treno rappresenta un moderno e sostenibile vettore di scoperta di un territorio: quale mezzo migliore per scoprire dal finestrino una realtà diversa, mettendo a fuoco i sapori e i colori locali? È nata così questa preziosa collaborazione tra Trenitalia e Gambero Rosso, per dare, soprattutto ai giovani, questa nuova vista su quel patrimonio infinito che è il turismo anche enogastronomico di prossimità: nessun Paese ne è ricco e permeato come l’Italia.
Dopo Sicilia e Puglia, il viaggio prosegue in Campania, terra ricca di prelibatezze, apprezzate e simbolo del Made in Italy in tutto il mondo, a partire dalla pizza, ma anche con panorami mozzafiato e tanta storia. Due gli itinerari raccontati, da Napoli a Salerno e da Napoli a Caserta, per poi proseguire in Toscana e con le altre regioni.
L'itinerario che da Napoli porta a Salerno è una delle esperienze più identitarie che l'Italia ha da offrire. Questo percorso attraversa panorami mozzafiato, città storiche e, soprattutto, permette di scoprire alcuni dei prodotti tipici più gustosi della regione. Tra le prelibatezze tipiche campane non manca la sfogliatella, nella versione "riccia" e "frolla", farcita con una deliziosa crema di ricotta e aromatizzata con canditi e scorza d'arancia. O ancora, il pomodoro San Marzano, eccellenza agroalimentare italiana, e il limone di Amalfi, tutelato dal marchio IGP e declinato in numerose ricette sia dolci che salate.
Sulla costa, abbonda il pescato: gamberi, scorfani, pezzogne, occhiate, ricciole, polpi, pesce azzurro, molluschi sono alla base di ricette tradizionali come gli scialatielli all’Amalfitana. Tra i dolci tradizionali, babà e delizie al limone, ideali da accompagnare con un caffè o un liquore locale come il limoncello a base di limoni locali.
Salerno, la tappa finale di questo itinerario, incanta col centro storico, il porto e il lungomare, la cucina solare e genuina, le insegne veraci e quelle di nuova generazione. Tutta da respirare e da passeggiare, magari con un “cuoppo” in una mano. Il viaggio di "In Regionale con Gusto – Scoperte enogastronomiche a portata di treno" segnala Ristoranti, Trattorie, Wine Bar e gelaterie migliori, tutte con la distanza a piedi dalla stazione.
Annamaria Parlato 15/10/2024
Salerno, il "Vicolo della Neve" oggi: meno fascino ma tanto coraggio
Salerno è una città ricca di storia e tradizioni; tra le sue eccellenze, la gastronomia occupa un posto di rilievo. La posizione della città lungo le principali rotte commerciali ha portato, nel corso dei secoli, a un arricchimento della cucina locale con influenze diverse. Salerno ha una lunga tradizione di scambi culturali, sin dai tempi dell'antica Scuola Medica Salernitana, e questo si riflette anche nell’uso di spezie e sapori che richiamano cucine più lontane e quelle dei territori confinanti.
In questo contesto, c'è un luogo che è riuscito a lasciare un segno indelebile nel panorama culinario della città: il ristorante "Vicolo della Neve". Situato nel cuore del centro storico, il Vicolo della Neve è molto più di un semplice ristorante. È una vera e propria istituzione, un luogo dove si incontrano passato e presente, dove la cucina diventa uno strumento per raccontare l’identità e l’anima di Salerno. In un’epoca in cui la ristorazione tendeva a essere puramente funzionale, il Vicolo della Neve ha dimostrato che il cibo poteva essere una forma d'arte, capace di raccontare una storia e di trasmettere emozioni profonde. Questo approccio ha avuto un impatto anche sulla cultura salernitana, contribuendo a far emergere una nuova consapevolezza del valore della gastronomia come espressione culturale.
Il ristorante o meglio la trattoria deve il suo nome all’antica strada in cui si trova, Vicolo della Neve, una delle vie più pittoresche e cariche di storia del centro antico di Salerno. La sua collocazione non è casuale: Salerno, sin dal Medioevo, è stata una città fiorente e dinamica, punto di incontro per mercanti, artisti, letterati e viaggiatori, che contribuivano alla vitalità della vita urbana. È in questo contesto che nasce il ristorante, in un vicolo che, già nei secoli passati, ospitava una delle antiche nevère, piccole strutture sotterranee adibite alla conservazione della neve proveniente dai Picentini o dalla Valle dell’Irno, che veniva poi usata per la refrigerazione dei cibi.
A pochi metri dal locale c’è stato anche il rinvenimento di una domus di epoca romana e le tracce romane sono visibili anche negli ambienti interni, lasciati a vista per ricordare quanta storia c’è stata in questi luoghi. Questa particolarità ha dato un tocco di autenticità e storicità al luogo, rendendolo sin da subito un punto di riferimento per chiunque volesse vivere un’esperienza gastronomica legata alle radici profonde della città.
Il Vicolo della Neve nasce alla fine dell’Ottocento come cantina e poi diventa forno, trasformandosi negli anni in una pizzeria. A partire dalla sua apertura, il Vicolo della Neve ha saputo evolversi rimanendo sempre fedele alla sua vocazione originaria: proporre una cucina che rispecchiasse l’essenza della tradizione salernitana. Inizialmente, il ristorante era conosciuto per la semplicità e la genuinità delle sue pietanze. Le ricette proposte derivavano direttamente dalla tradizione contadina e marinara della zona, con piatti che facevano largo uso degli ingredienti locali, come il pesce fresco del Golfo di Salerno, le verdure provenienti dalle fertili terre circostanti, i prodotti caseari delle vicine colline.
Tuttavia, nel corso degli anni, il ristorante ha saputo aggiornare la sua offerta, introducendo nuove interpretazioni e tecniche culinarie, senza mai perdere di vista il legame con il territorio. Questa capacità di innovare rimanendo fedeli alla tradizione ha permesso al Vicolo della Neve di mantenere sempre alta l’attenzione e l’interesse della sua clientela, che comprende sia i salernitani, affezionati alla cucina del luogo, sia i turisti, attirati dalla fama del ristorante e dalla sua autenticità. Dopo la chiusura avvenuta nel 2020, sotto la gestione di Matteo Bonavita, fortunatamente lo scorso maggio Fiorenzo Benvenuto, Marco Laudato e Gerardo Ferrari ne hanno garantito la riapertura e la continuità. Una luce di speranza sicuramente e anche tanto coraggio nell’attuazione del restyling con lo studio di architettura Apt5. In cucina anche l’esperienza e la perizia della Signora Maria, nonna di Gerardo, grande custode della cucina salernitana tradizionale.
La cucina proposta dallo chef Marco Laudato al Vicolo della Neve è una celebrazione della tradizione gastronomica di Salerno e della Campania. Uno dei punti di forza del ristorante è la capacità di valorizzare i piatti poveri della cucina salernitana, portando in tavola sapori semplici ma intensi, che raccontano una storia di genuinità e passione. Tra i piatti più iconici del ristorante, la pasta e fagioli (cui manca però la golosa crosticina che si creava ripassandola nel forno a legna), la milza, la parmigiana di melanzane, il peperone imbottito e il cinquetto (che costava cinque lire), cioè il calzone con uova strapazzate, formaggio e salame semistagionato, vere e proprie pietre miliari.
Preparati seguendo le ricette tramandate di generazione in generazione, questi piatti rappresentano al meglio la cucina salernitana, che si basa su ingredienti di qualità e sapori decisi ma ben equilibrati. Un altro fiore all'occhiello del ristorante è la tagliatella allardata (introdotta di recente), una ricetta tradizionale che risale a tempi antichissimi. Si tratta di un primo piatto condito con patate, lardo, basilico e tanto formaggio, ingredienti che racchiudono tutto il sapore e i profumi della cucina del centro storico. Questo piatto è un perfetto esempio di come la cucina del Vicolo della Neve riesca a combinare semplicità e complessità, proponendo pietanze che soddisfano tanto il palato quanto lo spirito.
Il pesce, naturalmente, occupa il suo spazio nel menù. La freschezza del pescato giornaliero è garantita dalla vicinanza del porto di Salerno, che ogni mattina fornisce il ristorante con le migliori prelibatezze del mare. Piatti come le alici indorate e fritte, il polpo di nassa alla luciana o all'insalata, il baccalà con patate arrecanate e la zuppa di cozze sono tra le specialità più richieste al ristorante. Ciascuna portata è un tributo alla cucina marinara salernitana, che affonda le sue radici in una tradizione secolare di pesca e cucina di pesce.
Il Vicolo della Neve non è solo un ristorante, ma anche un luogo di incontro e di scambio culturale. La sua posizione privilegiata, nel cuore del centro storico, lo ha reso un punto di riferimento per gli artisti, gli intellettuali e i personaggi di spicco della città. Nei decenni, il ristorante è diventato un luogo dove la cucina e la cultura si sono incontrati con eventi, cene letterarie e serate a tema che hanno contribuito a fare del Vicolo della Neve uno dei centri della vita sociale salernitana. In particolare, il legame con la tradizione musicale e teatrale della città è stato uno degli aspetti che hanno caratterizzato la storia del ristorante. Sicuramente, durante le calde serate estive, il ristorante in passato ha ospitato piccoli concerti di musica popolare o esibizioni teatrali, offrendo ai clienti un’esperienza unica, che è andata oltre il semplice piacere del cibo.
Nel corso degli anni, il Vicolo della Neve ha avuto un impatto significativo sulla scena gastronomica di Salerno. Il ristorante ha saputo valorizzare i prodotti del territorio, diventando un esempio da seguire per molti altri locali della città. Grazie alla sua attenzione alla qualità e alla freschezza degli ingredienti, il Vicolo della Neve ha contribuito a diffondere una cultura del cibo che mette al centro il rispetto per le tradizioni e per la materia prima. Questo ha portato a una vera e propria rinascita della cucina salernitana, che oggi può vantare una vasta gamma di ristoranti e trattorie che propongono piatti ispirati alla tradizione locale, ma con un tocco moderno e innovativo. In questo senso, il Vicolo della Neve ha fatto da apripista, dimostrando che la cucina tradizionale può essere un punto di partenza per creare qualcosa di nuovo e unico, senza mai perdere di vista le radici.
Il ristorante Vicolo della Neve rappresenta un tassello fondamentale nella storia gastronomica di Salerno. Con la sua cucina, che affonda le radici nella tradizione, ma che è sempre aperta all’innovazione, il ristorante ha saputo mantenere viva la memoria culinaria della città, proponendo piatti che raccontano la storia e l’identità di Salerno.
Tuttavia quella bellezza sui generis che lo ha sempre caratterizzato, quel fascino atavico si è perso dopo il restauro conservativo, e lo stesso dipinto di Clemente Tafuri (raffigurante sull’arcata della sala principale quattro personaggi e tra questi anche il pappagallo che, con il suo richiamo dinnanzi alla porta del locale, era un attrattore curioso per i passanti ai quali spiegava il menù del giorno, con una cantilena ripetuta a memoria) sembra scomparire tra le pareti color crema che anticamente erano stracolme di cimeli e quadretti raccolti nel corso del tempo.
Uno dei primi a riflettere sul concetto di fascino è Platone, che ne parla in relazione alla bellezza. Nel dialogo Simposio, Platone descrive il fascino che la bellezza esercita sull'anima. La bellezza sensibile è vista come una manifestazione terrena di una bellezza più alta, quella del mondo delle Idee. Il fascino della bellezza sensibile ha la capacità di elevare l'anima verso la contemplazione della bellezza assoluta, che è eterna e immutabile. In questo senso, il fascino è un'esperienza che parte dal mondo sensibile ma conduce verso la dimensione spirituale e intellettuale.
Forse quell’atmosfera di ritrovo un po' bohémien e intellettuale della Salerno che fu ora il Vicolo della Neve non la conserva, ma il progetto di riportarlo in vita è degno di lode, è stato un gesto eroico che senza dubbio comporta anche grosse responsabilità e richiama su di sé possibili critiche e continui confronti col passato. Oggi, in ogni caso, il Vicolo della Neve è un punto di riferimento per chiunque voglia vivere un’esperienza autentica, gustando i sapori di una volta in un contesto accogliente e altamente professionale.
E’ un monumento a Salerno, ai salernitani e alla salernità e come tale deve continuare a vivere e pulsare. La sua capacità di rimanere al passo con i tempi, pur conservando intatta la sua anima tradizionale, è ciò che lo rende un luogo unico e indimenticabile, un vero e proprio pilastro della gastronomia salernitana. “L'odore di menta t'invita, la tavola bianca, la stanza confusa dall'abbondanza. In quell'odore di forno per qualche sera la vita si scalda con le sue mani e quegli accordi lontani del tempo che fu”. (Alfonso Gatto)
Annamaria Parlato 30/04/2022
Il futurismo della Polibibita e del Carneplastico nel "richiamo" di alcuni chef salernitani
Il movimento futurista iniziò con il Manifesto pubblicato nel Figaro da Filippo Tommaso Marinetti il 20 febbraio del 1909. Lì si mescolarono le idee del decadentismo con quelle del nuovo tecnicismo conseguente allo sviluppo della civiltà industriale, la rottura col tradizionalismo e il mito della macchina come simbolo del moderno. Queste idee erano già mature in un gruppo di pittori che, convinti del rinnovamento radicale portato a suo tempo dagli impressionisti, e sperimentatori da anni delle nuove tecniche divisioniste, aspiravano a rappresentare non più il bello di natura ma il “frutto del nostro tempo industriale” (Boccioni, 1907).
Umberto Boccioni, Giacomo Balla, Carlo Carrà, Gino Severini, Luigi Russolo, firmarono il Manifesto dei pittori futuristi l’11 febbraio del 1910, che fu seguito dal Manifesto tecnico della pittura dell’11 aprile dello stesso anno. I principi dell’arte futurista, espressi nel Manifesto tecnico, si allinearono in poesia con il verso libero, in musica con la polifonia, si fecero interpreti della natura che si articolò non in senso imitativo, ma come “dinamismo” delle forme, in una sintesi plastica di movimento e luce.
Una seconda fase del futurismo fu influenzata dal cubismo con una mostra del 1912 a Parigi. La prima guerra mondiale e la morte di Boccioni nel 1916 sgretolarono l’attività dei pittori futuristi. Numerosi epigoni, capeggiati da Enrico Prampolini, continuarono per parecchi anni attorno a Marinetti a proporre forme moderniste, come l’aeropittura, ma senza riuscire a sfuggire nel complesso al controllo politico fascista e a costruire una valida alternativa al ritorno al passato.
La gastronomia, non differenziandosi dall’arte, fu per i futuristi un ulteriore strumento di propaganda pittorica e politica. Il cuoco francese Jules Maincave, grande amico di Marinetti e Guillaume Apollinaire, fu l’anticipatore di questa cucina. In una cena presso il ristorante Penna d’Oca di Milano nel 1930, Marinetti preannunciò il Manifesto della cucina futurista, pubblicato poi su Comoedia il 20 gennaio del 1931. Nella cucina i futuristi amarono le sperimentazioni, in quanto annoiati dai metodi tradizionali, che secondo loro rappresentavano la stupidità; andarono controcorrente, accostando cibi tra di loro agli antipodi, cosa impensabile per l’epoca, giocando su contrasti agrodolce. Il filetto di montone si sposò con la salsa di gamberi, la noce di vitello con l’assenzio, la banana con la groviera, l’aringa con la gelatina di fragola.
Dopo il Manifesto del ’31, nel 1932 vi fu la pubblicazione del libro “La cucina futurista” di Marinetti e Fillìa. Essi diedero nomi stravaganti ai piatti, famosissimo fu il Carneplastico, una sorta di polpetta-cilindro verticale di carne alla piastra con 11 tipi di verdure all’interno, assemblata alla base di un piatto con la tecnica artistica del collage, con miele e un disco di salsiccia poggiato su tre sfere dorate di carne di pollo. Abolirono l’uso della pasta, chiamata “alimento amidaceo”, in quanto ritenuta colpevole di causare, a coloro che ne facevano uso, “fiacchezza, pessimismo, inattività nostalgica e neutralismo”. Furono propensi all’abolizione del coltello e della forchetta per la creazione di “bocconi simultanei e cangianti” e spinsero i cuochi ad abbinare colori, musiche ed essenze profumate ad un pasto, quasi a volerlo rendere simile ad una mostra d’arte.
Italianizzarono molti nomi stranieri come il cocktail che divenne “polibibita”, il sandwich che si chiamò “tramezzino”, il bar in “quisibeve”, il dessert in “peralzarsi” e il picnic in “pranzoalsole”. La cucina futurista prevedeva una particolare attenzione all’aspetto visivo, pittorico e scultorio sia delle portate che della composizione a tavola, dove ogni vivanda doveva avere un’architettura originale, possibilmente diversa per ogni commensale. L'invenzione di complessi plastici saporiti, la cui armonia originale di forma e colore nutrisse gli occhi ed eccitasse la fantasia prima di tentare le labbra, possiamo definirla una cucina esperienziale, tanto cara agli chef stellati di oggi.
Leggendo il manifesto futurista, sembra di vedere il Cyber egg di Davide Scabin o il risotto con foglia d’oro di Gualtiero Marchesi che richiamano in vita i “bocconi simultanei e cangianti” contenenti dieci o venti sapori da gustare in pochi attimi. La tanto attesa invasione della chimica e delle attrezzature scientifiche anticipò la cucina molecolare, quella “tecnoemozionale” di Ferran Adrià. Stessa cosa è accaduta nel Food Pairing, la disciplina che confronta e studia la catena molecolare degli alimenti anche in relazione ai cocktail, grazie alla quale barman e chef portano avanti uno scambio reciproco di conoscenze e accostamenti azzardati che possono portare in tavola una specie di scomposizione e assemblaggio di note olfattive e gustative.
Il "The Black Monday Bistrot" di Salerno, nato proprio per allargare il concetto di food pairing dei cocktail, realizzati nell’originale locale in stile proibizionismo americano degli anni Venti-Trenta, vede ai fornelli lo chef Michele Giammarino, abile interprete delle cucine internazionali ed europee in chiave gourmet. Le sue estrose composizioni gastronomiche possono definirsi in un certo qual modo futuriste, soprattutto se si analizzano piatti come il petto d’anatra affumicato, cavolo nero e gomasio al cacao o le crepes di ribs di maiale, chutney di ananas e fonduta di toma di bruna alpina.
Allo stesso modo lo chef Adriano Dentoni Litta, executive del ristorante "Hydra Fine Food & Wine Cellar", nel suo agnello, sedano rapa e maionese ai lamponi e nel cappuccio di zucca, parmigiano e caffè, ha sicuramente tendenze più consone ad una cucina di tipo mediterraneo anche se non mancano inflessioni futuriste ed avanguardiste in cui sono rilevanti la raffinatezza della composizione, le armonie di colore e forma.
Nella prima immagine, il libro "La cucina futurista" e il cappuccio di zucca dello chef Dentoni Litta; nella seconda immagine, le crepes (a sin.) e il petto d'anatra (a des.) dello chef Giammarino. Le foto dei piatti (compresa quella di copertina) sono tratte dalle pagine social dei ristoranti citati.