Na' tazzulella e' cafè acconcia a vocca a chi nun po' sapè
Storia della bevanda più amata dagli italiani e delle torrefazioni salernitane
Annamaria Parlato 30/01/2022 0
Il nome caffè ha origine dalla parola araba “qahwa” che indica qualsiasi bevanda di tipo vegetale, il caffè infatti era detto “il vino d’Arabia”. Il caffè fa parte delle bevande nervine e consta dei semi torrefatti e macinati della Coffea arabica, arbusto tropicale appartenente alla famiglia delle Rubiaceae. Quest’albero possiede foglie coriacee ovali-lanceolate, lucide sulla pagina superiore; i fiori sono bianchi e profumati e maturano piccole bacche rosse, ovali, contenenti due semi che corrispondono appunto ai chicchi di caffè.
Leggende e racconti conducono all’affascinante mondo delle origini del caffè. Tra queste, interessante quella che narra dell’utilizzo del caffè da parte dell’Angelo Gabriele per curare il profeta Maometto. Si narra anche, tra le innumerevoli favole, che dei monaci etiopi verso l’850 d.C. si accorsero delle bacche del caffè perché le loro capre le avevano mangiate. Raccolte le bacche, ne ricavarono un decotto che li teneva svegli durante le loro preghiere notturne.
Dall’Etiopia, il caffè si diffuse in Arabia con successo, fino a tutta l’area del vicino Oriente e del Mediterraneo e, con la bevanda, si adottarono anche tutti gli utensili necessari alla sua preparazione. Il successo di tale fenomeno è anche provato dai bassorilievi presenti in alcune tombe, fatti eseguire dalle famiglie di beduini, a dimostrazione dell’assimilazione negli usi quotidiani.
Nel XVI secolo il caffè giunse poi fino a Costantinopoli, dove fu aperta la prima bottega. In Europa il caffè fu conosciuto solo dopo parecchi anni, importato successivamente al cacao e al tè. A Vienna, verso il 1683, a seguito della fine dell’assedio turco, fu costruita la prima casa del caffè. Occorre però attendere gli anni posteriori al blocco continentale di Napoleone, per avere, con successo, la diffusione del caffè nell’ovest dell’Europa.
Il caffè contiene la caffeina, che ha azione stimolante del cuore ed è inoltre un attivo nervino e digestivo. A conferire il caratteristico aroma al caffè è il caffèolo, un olio essenziale. Sono molti i surrogati del caffè, ma quelli più diffusi, e non soltanto nei periodi di guerra, durante i quali il trasporto della predetta droga dai Paesi di produzione è stato spesso compromesso, sono le radici di cicoria, i semi di di alcune specie di Astragalo (leguminose), le cariossidi di orzo torrefatte e anche le ghiande di quercia abbrustolite e macinate.
Il caffè è un universo molto dinamico, tant’è che oggi si sposa in maniera creativa anche con altri settori, dalla pasticceria al vino sino a giungere alla ristorazione in senso ampio del termine. Ma prima di essere degustato in una bollente tazzina o in vetro, il chicco di caffè deve essere tostato. La tostatura, o torrefazione, è una fase molto importante del processo di produzione del caffè: il termine deriva dal latino torrefacere, “far seccare”. È nata molto tempo fa e si è evoluta nei secoli. Alla base c’è un procedimento che può sembrare banale, ossia la semplice cottura dei chicchi crudi.
È impossibile risalire con certezza alla nascita della tostatura: sono diverse, infatti, le leggende e le storie che si raccontano, ma pare che la casualità abbia giocato un ruolo fondamentale. Secondo alcuni, l’origine di questo metodo è da collocare dopo l’assedio di Vienna (1529) da parte dei Turchi, guidati da Solimano il Magnifico. I soldati utilizzavano dei sacchi pieni di chicchi di caffè per ripararsi e, quando gli invasori appiccarono il fuoco alla città, il caffè si abbrustolì. Una leggenda araba, ancora più antica, afferma che alcuni chicchi di caffè siano finiti per errore sulla brace di un fuoco da campo e abbiano attirato l’attenzione di tutti i presenti con il loro profumo avvolgente.
La tostatura del caffè era inizialmente effettuata con degli utensili in metallo o porcellana; per rimestare la piccola quantità di chicchi si usava un cucchiaio. In Egitto, più precisamente a Il Cairo, nel 1650 fece la sua comparsa il tostacaffè: cilindrico e in metallo, aveva una manovella collegata che permetteva di girare la pala posta al suo interno, per mescolare i chicchi. Si diffuse pian piano nel resto del mondo, subendo modifiche nei vari Paesi e diventando sempre più moderno. Tuttavia, gli abbrustolitori rimasero comuni anche nel Novecento: in Italia, per esempio, il tostino era composto da una padella con un coperchio, una manovella e uno sportello per introdurre i chicchi di caffè e veniva utilizzato anche nel secondo dopoguerra.
Ma il processo di torrefazione si spostò presto nelle fabbriche: le macchine tostatrici sparirono dai bar e lo stesso accadde per i modelli che venivano utilizzati in casa. I principali sistemi di tostatura sono due, a conduzione e a convezione, più un terzo ibrido. Solo nel salernitano si contano circa una sessantina di torrefazioni e nella città di Salerno una decina. Tanto per citarne alcune: Caffè Motta, Caffè Grieco, Caffè Vittoria, Cesare Trucillo, Caffè Cutelli, Castorino Caffè, Kikko Caffè, Guatemala Coffee, Caffè Santa Cruz, Moka Gold.
Ognuna di queste aziende ha alle spalle un’affascinante storia di famiglia che si tramanda di generazione in generazione, alcune sono anche Accademie del Caffè dove poter apprendere l’arte del brewing, diventare qualificati assaggiatori di caffè o addirittura baristi e spesso vengono lanciate sul mercato preziose linee di specialty coffee, o meglio caffè verdi della specie Arabica coltivati in speciali condizioni climatiche e ambientali, con particolari profili di gusto e aroma e quindi ben selezionati e lavorati per rispettarne le caratteristiche uniche.
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Annamaria Parlato 11/12/2019
Le castagne di Calvanico e i calzoncelli di Natale
Furono i monaci benedettini dell’Abbazia della SS. Trinità di Cava dei Tirreni che diffusero la castanicoltura in provincia di Salerno, impegnati a curare i propri terreni e la qualità dei castagneti tra XII e XIII secolo. Altre notizie sulla presenza di castagne nel salernitano si ebbero tra il XVIII e il XIX secolo nei mercuriali, ma oggi sono circa cinquemila gli ettari votati alla castanicoltura nel territorio salernitano e tra questi vi è anche il Comune di Calvanico con la sua importante produzione.
Proprio in questo comune, conosciuto anche per nocciole e olive di pregio, le castagne la fanno da padrone e in periodo autunnale una famosa sagra nata negli anni settanta richiama tantissimi curiosi e turisti. Detta anche "Santimango" o "Marrone di Avellino" e rientrante nell’areale di elezione della "DOP Castagna di Serino", questa castagna è di forma medio-grande, rotondeggiante e dalla polpa a pasta croccante, bianchissima, soda e compatta. E’ molto utilizzata in pasticceria e si presta perfettamente ad essere trasformata in marron glacé, farina e derivati. Le caratteristiche qualitative di pregio ne fanno una delle produzioni castanicole di eccellenza a livello nazionale.
La castagna è l’ingrediente fondamentale dei calzoncelli, i tradizionali dolci di Natale tipici della Valle dell’Irno a base di sfoglia fritta, zucchero, cacao, liquore, pere essiccate, nocciole, cannella e altre spezie, decorati a piacere con confettini colorati o “diavolilli”. I calzoncelli, adottati anche dalla città di Salerno quale dolce caratterizzante le feste natalizie, hanno una forma tonda e merlettata. Per prepararli bisogna innanzitutto bollire le castagne secche fino a farle ammorbidire. Dopodiché si asciugano e si tritano finemente e si fa sciogliere il cioccolato fondente a bagnomaria. Tutti i composti ottenuti in una grande ciotola si mescolano allo zucchero, al cacao, al liquore aromatico, alle pere, alle nocciole e alle spezie.
Dopo aver fatto ciò, bisogna ricavare un impasto morbido. Si prepara la sfoglia per i calzoncelli setacciando innanzitutto la farina. La si dispone a fontana, mettendo al centro le uova intere con i tuorli, girando con una forchetta insieme allo zucchero. Man mano, si uniscono gli altri ingredienti liquidi e si impasta fino ad ottenere un panetto dalla consistenza omogenea. Stesa la pasta sottilmente, si ricavano dei dischi: ne occorrono due per ogni dolcetto e su quello che fa da base si pone un cucchiaio di ripieno e con il secondo si copre il tutto, sigillando bene i bordi e imprimendo il caratteristico decoro a merletto. I calzoncelli si friggono in abbondante olio bollente e una volta raffreddati, si cospargono di zucchero a velo o di miele fuso a bagnomaria insieme ai confetti colorati, allegri e tipici del Natale. E a te, t’piace 'o presepe?
Annamaria Parlato 23/01/2022
Quando il riso abbondava sulla tavola dei salernitani
E’ probabile che nel Medioevo il riso sia stato veramente coltivato in minime quantità nel Sud Italia, nei conventi o negli Orti dei Semplici come pianta medicinale. Si può pensare che dalla Scuola Medica Salernitana e dal monastero di Monte Cassino questa pianta abbia iniziato la sua migrazione fermandosi in Toscana, dove si hanno notizie di una coltivazione di riso nei dintorni di Pisa verso la metà del '400, mantenutasi fino alla metà di questo secolo con una varietà assai pregiata dal nome “riso di Massarosa”.
In realtà, però, a eccezione degli scambi commerciali, non si può ancora parlare di un riso italiano. Tant’è che nel 1371 un editto milanese lo classifica come “riso d’oltremare” oppure “riso di Spagna”. Il riso però ha storia e identità molto singolari, che si perdono nella notte dei tempi soprattutto nel Meridione d’Italia, anche se può risultare strano. La coltura del riso scomparve definitivamente nell’Ottocento a Salerno; oggi resta solo un lontano ricordo con una forte presenza nella gastronomia locale. La prova che Salerno sia stata città di risaie per tre secoli (XVI-XIX) è data anche dal fatto che esiste Via delle Terre Risaie, posta nella Zona Industriale della città.
La pianta del riso (Oryza sativa) si ritiene originaria dell’Asia orientale, dove era conosciuta e coltivata già in epoca preistorica. Tra il 600-700 d.C. gli Arabi la introdussero in Europa, o meglio in Spagna, e da lì iniziò a diffondersi nel Vecchio Continente. Per secoli i mercanti importarono il riso, senza riuscire a coltivarlo in modo significativo. La prima coltura vera e propria nelle piane acquitrinose nei pressi di Paestum si attribuisce agli Aragonesi ed in particolare ad Alfonso d’Aragona, dopo la conquista del regno di Napoli. Alcuni soldati spagnoli infatti avrebbero dato vita a coltivazioni nelle paludi formate dalle esondazioni del fiume Sele.
Il filosofo Simone Porta (1495-1525), parla di primo insediamento del riso in Campania, presso Salerno. Nei secoli successivi la coltura arrivò a Crotone, a Torre Annunziata, presso il fiume Sarno sino a Castellammare di Stabia, in prossimità di Cosenza, accanto ai campi di cavoli e torzelle, e da qui l’usanza di mangiare ancora oggi riso e verze. Da Salerno alla Piana di Sibari un unico territorio ricchissimo di zone paludose in cui l’unione tra le acque, il suolo e il clima resero il riso di qualità eccellente, catturando l’attenzione di scrittori, poeti e cuochi. Nel 1500 entrò a far parte dei banchetti di corte.
Il poeta napoletano Giambattista del Tufo nella sua opera “Il Ritratto o modello delle grandezze, delizie e meraviglie della nobilissima città di Napoli”, declamava: “E d’estate e d’inverno farro e rise infinite da Salierno”. Il cuoco Bartolomeo Scappi descrisse la ricetta della minestra con brodo di pollo e riso, detto alla moda di Damasco: “Piglisi il riso Milanese o di Salerno che sono i migliori”. Anche Antonio Latini nel suo trattato di cucina del 1692, “Lo Scalco alla Moderna”, ribadiva: “Principato Citra. In questa provincia si ritrova ogni sorte di robba. Salerno produce li più famosi risi e in gran abbondanza”.
In seguito a Napoli e da lì anche in altri territori il riso conquistò il primato solo nelle mense dell’aristocrazia con l’arrivo dei “Monzù”, cuochi francesi chiamati a Napoli dalla Regina Maria Carolina in occasione delle sue nozze con Ferdinando IV di Borbone (1768). Con molta probabilità fu il sartù di riso ad essere servito ai nobili ospiti durante il banchetto nuziale ma si hanno ancora dei dubbi in merito. Nel Principato Citra il dolce tipico di Pasqua era la pastiera di riso, amata tutt’ora dai salernitani. Al popolino non piaceva molto perché ritenuto costoso rispetto ai maccheroni e stucchevole se bollito e privo di condimento.
Le risaie, se da un lato favorirono l’economia, dall’altro causarono enormi danni all’ambiente e alla qualità della vita. Lo stato di salute dei contadini che operavano nel Principato di Salerno fu messo a rischio a causa dell’aria insana, delle zanzare nelle paludi malsane e della malaria che mieteva vittime diffondendo febbri atroci. Nel 1820 le risaie delle piane di Salerno vennero bonificate, subendo un processo di trasformazione ambientale. Tutti gli stagni e le zone umide si tramutarono in orti irrigui, frutteti e giardini, cancellando ogni minima traccia del tempo che fu.
Oggi il riso è intensamente coltivato in Piemonte (Novara, Vercelli), Lombardia (Pavia, Milano, Mantova), Veneto (Verona, Rovigo), Emilia (Bologna, Ravenna). Il riso si semina di regola nei mesi primaverili (aprile-maggio) e si raccoglie in settembre-ottobre, al più ai primi di novembre, se si tratta di varietà a maturanza tardiva. La risaia è una porzione di terreno, leggermente inclinato per favorire l’indispensabile scolo dell’acqua di irrigazione. La circondano e la suddividono in aiuole o piavi, degli argini longitudinali e trasversali, in opportuni punti dai quali si aprono delle bocchette, attraverso cui viene data l’acqua.
Prima della semina questa superficie viene inondata ed uguagliata mediante una larga tavola di legno (spianone), trainata anticamente da cavalli. Quest’operazione ha pure la funzione di intorbidire l’acqua in modo che il limo in sospensione, depositandosi, copra il seme. A due o tre giorni dalla semina, il livello dell’acqua viene abbassato, in modo che questa, riscaldandosi più facilmente, favorisca il germogliare del riso. Successivamente, formatasi la pianticella, l’inondazione viene innalzata a poco a poco (20-30 cm al massimo).
Tra le cure necessarie durante la crescita del riso, importanti ed indispensabili sono la sua monda o mondatura dalle cattive erbe, la quale viene eseguita a mano da personale stagionale per lo più femminile (mondine): il terreno sommerso ed inzuppato facilita l’estirpazione delle piante con le loro radici e quindi la loro quasi totale distruzione. Migliori risultati si ottengono seminando in vivaio e trasportando poi le piantine di riso già formate nelle località ove s’intende procedere alla loro coltura. A maturità s’inizia il graduale abbassamento dell’acqua, fino a mettere la risaia a secco nel più breve tempo possibile; poi ha inizio la mietitura e successivamente la trebbiatura, dove si stacca il risone dalla spiga. Superate tutte queste fasi, il riso è pronto per giungere a tavola.
Redazione Irno24 25/11/2022
Riapre con tante novità la storica pasticceria Aliberti di Montoro
La storica pasticceria Aliberti di Montoro, che aveva chiuso i battenti lo scorso agosto per ridisegnare i propri spazi, riapre con una location più moderna e vicina alla sua offerta. Per presentare i nuovi ambienti esclusivi, ha organizzato, per sabato 26 novembre, alle 19:30, un aperitivo all'insegna del buon gusto: tanti finger food di pasticceria dolce e stuzzicheria salata, un primo preparato con prodotti a km 0 dallo chef stellato Raffaele Vitale, una degustazione dei vini di Villa Raiano, cocktail bar e dj set.
Il restyling del laboratorio, della caffetteria, dell’area espositiva e degli spazi esterni della pasticceria Aliberti s’inserisce in un percorso più ampio, che ha visto come protagonista Marco Aliberti. I tre mesi di chiusura sono stati, infatti, anche l’occasione per sperimentare nuovi dolci ed arricchire il proprio bagaglio personale con nuove esperienze e competenze.
Lo scorso ottobre, Aliberti è entrato a far parte dell'Accademia Maestri del Lievito Madre e del Panettone Italiano, rientrando così, a pieno titolo, tra i massimi esperti della lievitazione naturale. Gli importanti cambiamenti che stanno interessando la pasticceria non sono un punto d’arrivo, ma piccole tappe di un grande viaggio verso una pasticceria sempre più moderna capace di riecheggiare un dolce passato.