Salerno, le pizze da Màdia non si... conservano ma si sfornano per i buongustai

All'Irno Center un indirizzo di qualità guidato dal pizza-chef di origini vesuviane Francesco Miranda

Annamaria Parlato 26/02/2024 0

Son passati sette anni da quando il costruttore Salvatore Iannuzzi ha inaugurato Màdia all’Irno Center di Salerno. Sette anni fruttuosi di recensioni positive e riconoscimenti nelle migliori guide di settore (tre spicchi Gambero Rosso), in cui inizialmente pizzeria e cucina camminavano di pari passo con le proposte in carta dello chef Domenico Vicinanza, poi solo con la pizzeria capitanata dal primo giorno dal talentuoso pizzaiolo di origini vesuviane, Francesco Miranda.

La gestione è oggi nelle mani di suo figlio, Fabrizio Iannuzzi, coadiuvato da un assortito team di collaboratori, sia in sala che al forno delle pizze, coordinato da Miranda. Il termine màdia ovviamente richiama il mobile da cucina tradizionale, spesso in legno, utilizzato per conservare alimenti, utensili e altri oggetti. La màdia poteva avere ante e cassetti ed era spesso posizionata nella zona della cucina, utilizzata anticamente dalle nonne per deporvi anche pane, farina o per avere una superficie di lavoro che poteva essere sfruttata come piano aggiuntivo per la preparazione dei cibi.

Quindi anche il significato che ne deriva è identificato della filosofia della pizzeria, che vuole elargire ai propri clienti un prodotto autentico, genuino, rustico e goloso, una pizza che parla molte lingue e dialetti e che ha ìnsiti profumi e ricordi del passato. L’ambiente, sviluppato su due piani, con le sedute interne che in estate vengono proiettate anche verso il dehors esterno, è confortevole, i materiali in legno lo rendono caldo e amichevole; in alto, sul soffitto, campeggia al centro una gigantesca spiga di grano, un importante segno di riconoscimento per indicare ciò a cui si vuole dare maggiore importanza: farina, grani e impasto.

Ovviamente l’impasto parte dal prefermento, tecnicamente chiamato “biga”, che viene posto in apposite celle per almeno 48h. La biga dona digeribilità, gusto e profumi, che ricordano il pane appena sfornato, quello di una volta, lavorato dalle massaie nelle case di campagna. Per altri impasti viene utilizzato il lievito madre, creato dalle bucce di mela annurca biologica che, quotidianamente, si idratano con acqua e farina. Questo tipo di lievito dona all'impasto note acidule, amplifica il profumo del grano e favorisce ulteriormente la digeribilità.

Miranda ha svelato: “Per il menù primaverile ci saranno delle sorprese. Ho ideato una serie di pizze al tegamino con farine e impasto 100% vegetali, usando addirittura l’acqua per idratarlo, recuperata dall’ortaggio stesso come carciofo e asparago. Per farcirle non mancheranno questi vegetali, uniti ad altri ingredienti che ne esalteranno al massimo il sapore. Non sembrerà di mangiare una pizza al carciofo ma il carciofo stesso. Le mie origini sono contadine e lo studio delle verdure nella loro essenza ha sempre preso il sopravvento su di me. E’ dal 2017 che mi sono concentrato sull’idea di introdurre l’orto in pizzeria e proseguirò su questa strada, che mi è sembrata vincente dal primo momento”.

Francesco nella sua màdia ha un impasto speciale per ogni giorno della settimana: dal lunedì alla domenica c’è l’impasto con farina di tipo 1, il giovedì e il venerdì l’integrale e dalla domenica al mercoledì i clienti possono assaggiare la pizza in pala, con impasto a base di semola Senatore Cappelli, farina integrale e farina di tipo 2. La pizza di Francesco ha un cornicione non troppo pronunciato, con buccia leggermente croccante, la base è sottile ma robusta abbastanza da sostenere i condimenti senza perdere la sua consistenza.

Consigliata tra le “pizze d’inverno 2024” è la “Cilento a colori”, sia per la cromìa utile ad allontanare il grigiore invernale sia per il il connubio di sapori sprigionato dagli ingredienti, di cui broccoli saltati con aglio, olio e peperoncino, bufala affumicata, salamino, cacioricotta di capra del Cilento, datterino giallo e olio al peperoncino. In abbinamento è consigliata una birra con gradazione alcoolica più elevata, come l’inglese Spitfire Strong Lager (9 gradi) a bassa fermentazione, nata per volere del birrificio Shepherd Neame, in ricordo dell’ottantesimo anniversario del primo volo dell’iconico cacciabomardiere Spitfire. Una pizza che richiama esattamente il concept di Màdia, valorizzando l’elemento vegetale a 360 gradi.

Da non perdere anche la “Come una sorrentina”, un omaggio al classico piatto di gnocchi dell'omonima Penisola, con impasto soffice alle patate cotto in tegamino a tre lievitazioni, datterino della piana del Sele emulsionato con parmigiano reggiano 24 mesi e fiordilatte bruciato a cannello. Per chiudere in bellezza, un dessert artigianale ci sta tutto e quindi da provare è il “Dolcino tiepido” con farina Senatore Cappelli, albicocca e semi di papavero al profumo di menta, servito su salsa inglese all’albicocca e pellecchiella del Vesuvio. Un dessert piacevole, non stucchevole, che lascia il palato pulito e incanta con la sua rusticità, una carezza avvolgente e raffinata, da intenditori.

In abbinamento è perfetto il rum jamaicano Appleton Estate 8 years old Reserve di color miele, dalla grande luminosità di preziosi riflessi bronzati, naso consistente di spezie e frutta secca con sentori di miele e legno, note di vaniglia e nocciola, scorza d'arancia e melassa. Con un ambiente accogliente, un personale attento e cibo eccezionale, questa pizzeria offre un'esperienza gastronomica che vale la pena provare per assaporare le cose buone come una volta.

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Redazione Irno24 30/04/2025

A Salerno il rilancio dell'Embarcadero, nuove prospettive per l'icona del gusto

Embarcadero. La suggestione della parola è immediata, evocativa quanto basta di un crocevia di passeggeri, di abitudini quotidiane, di caratteri e personalità. Quel fermento emotivo ed emozionale che caratterizza i luoghi di condivisione, di scambio, di partecipazione. Non poteva, dunque, che chiamarsi Embarcadero l'iconico locale che, sin dagli anni '60, ha rappresentato lo snodo per eccellenza della passeggiata sul lungomare Trieste di Salerno. Per chi arriva e chi va.

Nel primo decennio di vita, l'originaria impronta di “semplice” approdo marittimo, funzionale all'attracco dei traghetti con destinazione la prospiciente Costiera Amalfitana, già più che mai “Divina”, si era poi adattata su un modello più consistente, tanto che quel chiosco/bar, insegna del centro città, era diventato un punto di riferimento irrinunciabile per una piacevole sortita mondana. Tuttavia, sul finire degli anni '70, sfavorevoli congiunture (in primis la "delocalizzazione" in Piazza della Concordia dell'attracco per la Costiera) hanno segnato un periodo al ribasso per il locale, non più così “centrale” nell'economia salernitana.

Nonostante diversi tentativi di recupero, non propriamente andati in porto, tanto per rimanere in tema “navigazione”, bisogna praticamente arrivare ai giorni nostri per la vera e propria rinascita dell'Embarcadero, grazie all'intuizione imprenditoriale di Alessandro Vicidomini e Ivan Guzzo, con la supervisione di Filippo Bove: la loro gestione, secondo un percorso votato alla qualità nel solco della tradizione, come testimonia l’ottimo lavoro in cucina dello chef Antonio Perna, sta restituendo all'Embarcadero la sua connotazione di “approdo”. Di gusti, innanzitutto. E di sguardi, dal momento che la veranda sul mare, all'occorrenza terrazzo, è un invito esplicito a godere del cibo e dello scenario incantevole del Golfo di Salerno, ammirabile da un prospettiva a dir poco privilegiata, quasi più che tridimensionale.

Approdo anche di stili, poichè l'Embarcadero è concepito per offrire agli avventori un “viaggio esperienziale” completo: caffetteria come approccio, cocktails e sfiziosità al piano superiore per stuzzicare il palato, pranzo/cena nella sala interna per definire ed arricchire il “momento” gastronomico, durante il quale una cantina di selezionata qualità (curata dallo stesso Guzzo) accompagna piatti che rinnovano e “rinfrescano” i sapori autoctoni in modo coerente e rispettoso, senza lasciare il passo ad “esotiche” divagazioni del momento.

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Annamaria Parlato 27/09/2025

Aria di settembre, i fichi "dottati" sono una prelibatezza del salernitano

Il fico giunse nel territorio cilentano nel IV secolo a.C. con i coloni greci, che fondarono diverse polis in quest’area, diffondendosi poi in tutto il “salernitano”. Questo frutto era considerato in epoca magno-greca il cibo eletto per filosofi e oratori, e i Romani ne decantavano le qualità e la bontà, tanto che, secondo la leggenda, Romolo e Remo furono allattati dalla lupa proprio ai piedi di un fico selvatico, il Ficus Ruminalis, albero sacro della Roma arcaica. Nelle colonie magnogreche il fico era ritenuto frutto “lucido”, nutriente ma non pesante, ideale per sostenere la mente. Nel corso dei secoli divenne simbolo di fertilità e abbondanza, tanto da comparire nei banchetti e nei rituali della terra.

Nel XVI secolo il medico salernitano Matteo Silvatico, autore dell’Opus Pandectarum Medicinae, ne descriveva le virtù terapeutiche, mentre nel Settecento i cronisti del Regno di Napoli annotavano che nel Cilento la povera gente campava più di fichi che di pane, definiti per l’appunto “pane dei poveri” per l’elevato contenuto calorico. Oggi è stimato come ingrediente fondamentale nella dieta mediterranea e grazie alle sue proprietà terapeutiche, viene usato in erboristeria e nei preparati dietetici.

Geograficamente, il fico bianco è coltivato nella parte meridionale della provincia di Salerno, in un lembo di terra bagnato dal Mar Tirreno, tra la foce del Sele e quella del Bussento nel Golfo di Policastro. La fertilità della terra, il clima mite, grazie alla presenza del mare, e la sapienza nella coltivazione rendono il Cilento il luogo adatto per la produzione di fichi bianchi. La bontà di questi frutti ha fatto sì che nel 2006 venisse riconosciuta, a questo prodotto, la denominazione DOP. Le tecniche di coltivazione delle piccole aziende locali sono a basso impatto ambientale, biologiche e senza l’utilizzo di sostanze dannose per la salute. Le aziende locali, in genere a conduzione familiare, si occupano in alcuni casi anche della lavorazione e trasformazione dei fichi.

Il fico bianco, come lo si mangia oggi, è una varietà pregiata che si è andata diffondendo su Salerno e provincia nel corso dei secoli. E’ un ecotipo, derivante dalla cultivar madre “fico della goccia” conosciuto come dottato; si presenta dal colore uniforme giallo-verde abbastanza chiaro, tendente al bianco una volta privo della buccia, con una polpa all’interno dolcissima dal colore giallo ambrato tendente al rossiccio, molto zuccherina. La raccolta, come già nell’antichità, avviene alle primissime ore del mattino, recidendo il peduncolo, cercando di non intaccare la buccia. La prima raccolta si ha tra agosto e settembre con i cosiddetti “settembrini”, mentre quella tardiva in autunno.

In estate l’ideale è degustarli freschi, accompagnati da pane caldo e salumi, come pancetta o prosciutto crudo di ottima qualità. D’inverno lo si trova essiccato, soprattutto nel periodo natalizio, con la sua farcitura, che può essere generalmente a base di mandorle e alloro. I frutti che andranno essiccati hanno la denominazione tipica di “moscioni”, in quanto raccolti dalla pianta in fase avanzata di maturazione. L’essiccazione è un procedimento che prevede diverse fasi: i fichi, raccolti senza esser privati della buccia, vengono fatti asciugare al sole per circa 4 giorni, poi si distendono su delle stuoie di canna o ginestra, sono quotidianamente rigirati fino a completa essiccazione ed infine cotti al forno a legna.

Un’altra specialità salernitana è il fico bianco essiccato ricoperto di cioccolato fondente, ripieno di noci, scorze di arancia, mandarino o limone, nocciole o semi di finocchietto. Si servono in genere infilzati su due stecche di legno parallele, somiglianti a degli spiedini. Spesso si vendono anche sfusi, messi a casaccio nelle ceste intrecciate. Molti sono i prodotti dolciari che si possono realizzare con questi fichi: la conserva di fichi bagnati nel rum, torte, gelati, marmellate, sciroppi e il famoso capicollo di pasta di fichi.

Ancora più tipiche sono le “crocette di fichi”, quattro frutti incrociati e ripieni di frutta secca, legati con foglie di alloro e passati al forno, simbolo insieme sacro e gastronomico. In passato i fichi secchi venivano anche messi a bagno nel vino rosso o nel latte caldo per la colazione invernale, fonte di energia nelle giornate fredde. Con l’emigrazione di fine Ottocento, i fichi arrivarono persino oltreoceano, portati in nave come provviste dai contadini diretti in America. Oggi il fico bianco DOP è simbolo di un territorio, capace di racchiudere storia, cultura e sapienza agricola in un frutto che resiste al tempo.

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Annamaria Parlato 11/12/2019

Le castagne di Calvanico e i calzoncelli di Natale

Furono i monaci benedettini dell’Abbazia della SS. Trinità di Cava dei Tirreni che diffusero la castanicoltura in provincia di Salerno, impegnati a curare i propri terreni e la qualità dei castagneti tra XII e XIII secolo. Altre notizie sulla presenza di castagne nel salernitano si ebbero tra il XVIII e il XIX secolo nei mercuriali, ma oggi sono circa cinquemila gli ettari votati alla castanicoltura nel territorio salernitano e tra questi vi è anche il Comune di Calvanico con la sua importante produzione.

Proprio in questo comune, conosciuto anche per nocciole e olive di pregio, le castagne la fanno da padrone e in periodo autunnale una famosa sagra nata negli anni settanta richiama tantissimi curiosi e turisti. Detta anche "Santimango" o "Marrone di Avellino" e rientrante nell’areale di elezione della "DOP Castagna di Serino", questa castagna è di forma medio-grande, rotondeggiante e dalla polpa a pasta croccante, bianchissima, soda e compatta. E’ molto utilizzata in pasticceria e si presta perfettamente ad essere trasformata in marron glacé, farina e derivati. Le caratteristiche qualitative di pregio ne fanno una delle produzioni castanicole di eccellenza a livello nazionale.

La castagna è l’ingrediente fondamentale dei calzoncelli, i tradizionali dolci di Natale tipici della Valle dell’Irno a base di sfoglia fritta, zucchero, cacao, liquore, pere essiccate, nocciole, cannella e altre spezie, decorati a piacere con confettini colorati o “diavolilli”. I calzoncelli, adottati anche dalla città di Salerno quale dolce caratterizzante le feste natalizie, hanno una forma tonda e merlettata. Per prepararli bisogna innanzitutto bollire le castagne secche fino a farle ammorbidire. Dopodiché si asciugano e si tritano finemente e si fa sciogliere il cioccolato fondente a bagnomaria. Tutti i composti ottenuti in una grande ciotola si mescolano allo zucchero, al cacao, al liquore aromatico, alle pere, alle nocciole e alle spezie.

Dopo aver fatto ciò, bisogna ricavare un impasto morbido. Si prepara la sfoglia per i calzoncelli setacciando innanzitutto la farina. La si dispone a fontana, mettendo al centro le uova intere con i tuorli, girando con una forchetta insieme allo zucchero. Man mano, si uniscono gli altri ingredienti liquidi e si impasta fino ad ottenere un panetto dalla consistenza omogenea. Stesa la pasta sottilmente, si ricavano dei dischi: ne occorrono due per ogni dolcetto e su quello che fa da base si pone un cucchiaio di ripieno e con il secondo si copre il tutto, sigillando bene i bordi e imprimendo il caratteristico decoro a merletto. I calzoncelli si friggono in abbondante olio bollente e una volta raffreddati, si cospargono di zucchero a velo o di miele fuso a bagnomaria insieme ai confetti colorati, allegri e tipici del Natale. E a te, t’piace 'o presepe?

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