Anche nel salernitano la Portulaca, erba grassa che resiste al sole e ai secoli
Viaggio tra storia, cucina e curiosità botaniche della "portulaca oleracea", pianta spontanea
Annamaria Parlato 30/06/2025 0
Tra le erbe spontanee più straordinarie, e ingiustamente dimenticate, che crescono nei campi assolati della provincia di Salerno c’è la portulaca oleracea, detta anche porcacchia, porcellana o erba grassa. Piantina succulenta dal portamento strisciante e dalla stupefacente resistenza, è capace di colonizzare terreni aridi, salini e perfino acquitrinosi, rendendosi utile là dove scarseggiano ortaggi e verdure. Il nome deriva dal latino, portula, ovvero piccola porta ed è riconducibile al fatto che il frutto secco o pisside si apre per espellere i semi alle prime piogge, favorendo così la sua riproduzione.
Un tempo preziosa, oggi ignorata, ha una storia millenaria che parte dall’antica Roma per giungere, tra pochi nostalgici ed erboristi appassionati, fino ai giorni nostri. Nella remota antichità era già apprezzata per le sue virtù medicamentose e alimentari: Plinio il Vecchio, Columella e Varrone ne parlano diffusamente, mentre nel Seicento i cuochi di Carlo II la mescolavano a lattuga, cerfoglio, petali di calendula e fiori di borragine per creare misticanze colorate e saporite, condite con olio e succo di limone.
Era nota per il suo effetto rinfrescante, per le proprietà diuretiche, depurative, antinfiammatorie, e – in un curioso paradosso – sia come rimedio contro la dissenteria che come stimolante intestinale, a seconda della preparazione. Nell’area costiera, la portulaca spunta ancora tra i solchi, invadendo le aiuole, insinuandosi lungo i bordi delle strade. È diffusa ovunque, ma poco considerata: l’abbondanza di verdure nei mercati italiani ha fatto sì che questa pianta antica sia caduta nell’oblio, sopravvivendo solo in rare preparazioni locali come la misticanza estiva laziale.
Eppure, la portulaca ha proprietà nutrizionali e terapeutiche eccezionali: è rinfrescante, ricca di vitamine (A, C e alcune del gruppo B), minerali e soprattutto Omega 3, rari nelle piante terrestri. Usata per secoli contro acidità, febbre, disturbi urinari e mal di testa, era perfino considerata antiafrodisiaca. Secondo Plinio, i signorotti greci la servivano agli ospiti per spegnere gli ardori virili, mentre i pitagorici la bandivano per non turbare la purezza dell’anima. Nonostante la sua cattiva fama sul piano dell’eros, la portulaca affascina ancora oggi per il suo sapore acidulo e salino, che la rende più interessante delle insalate moderne. I suoi giovani rametti possono essere consumati crudi con pomodori e cipolla, oppure cotti, in frittate, minestre, contorni e salse. Diversi chef salernitani propongono alcune ricette semplici e gustose, come un sugo per la pasta con pomodorini e aglio e un pesto a crudo con noci, peperoncino e olio, perfetto su bruschette o pasta fredda.
Anche nel florovivaismo la portulaca trova spazio grazie alla sua cugina, la portulaca grandiflora, dai fiori sgargianti. È proprio studiando le variazioni cromatiche spontanee nei suoi rami che si è scoperta la possibilità di ottenere piante chimera, composte da tessuti geneticamente diversi, moltiplicabili per talea e apprezzate nel mercato ornamentale. Attenzione però a regalarla: nel linguaggio dei fiori la portulaca significa “senza pudore”, forse per il suo modo disordinato e impetuoso di crescere. Eppure, proprio in questo suo istinto vitale, nella sua umile resistenza, nella capacità di nascere fra le crepe del cemento salernitano o nelle piane assolate, la portulaca racconta una storia antica quanto la civiltà. La portulaca è resiliente, sopravvive al caldo, alla siccità, all’inquinamento.
Nei paesi del Mediterraneo orientale, in Grecia, in Siria e in Turchia, è ancora venduta nei mercati come verdura preziosa. In Sud America, dove è stata introdotta dai colonizzatori, viene coltivata e consumata abitualmente. Eppure in Italia, terra di ortaggi ricchissimi, è stata dimenticata, confinata alla memoria orale dei nonni e agli studi degli etnobotanici. È una pianta da riscoprire, da rispettare e – perché no – da riportare nei piatti, magari in una nuova cucina contadina di territorio, attenta alla biodiversità e alla memoria.
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Annamaria Parlato 09/11/2022
Nobi, il ristorante di Fisciano in cui si fa ricerca sulla materia prima
Nobi sta per “nobilitare” le ricchezze agricole del territorio fiscianese, ma anche per “Nobile” Di Leo, colui che ha sottolineato - Ho immaginato un luogo dove chiunque potesse imparare ad amare la terra come lo amo io - e ha dato vita ad una masseria con food court in cui poter dar sfogo ad ogni vezzo gastronomico. Chi ha fame di novità, infatti, vuol godere di un’ottima cucina d’autore in un clima confortevole, curato nei minimi dettagli e in cui ci sia un buon rapporto qualità-prezzo.
Nobi accomuna tutte queste caratteristiche, perché il ristorante sorge in Contrada San Lorenzo di Fisciano, a due passi dall’uscita autostradale, dall’Università, da Salerno centro e da Avellino, completamente circondato da noccioleti, orti e natura rigogliosa; inoltre, esternamente ed internamente, la location è stupenda, con le due piscine di cui una a sfioro e le sale abbellite dal design d’autore, in cui predominano attraenti e vivaci tele e sculture di arte contemporanea; infine, la cucina di Michele De Martino è una garanzia da ogni punto di vista ed i costi sono nettamente inferiori alla norma, includendo i vini, considerando che c’è tanta perizia e che la materia prima è di estrema eccellenza.
Nobi è la naturale continuità della Masseria Nobile, azienda di punta del salernitano (Castel San Giorgio) dal 1966 per la produzione di legumi e pomodori, di cui datterini gialli Dolly, San Marzano DOP e marzanini. La coltivazione dei pomodori resta a Fisciano e l’inscatolamento avviene nello stabilimento di Castel San Giorgio, a pochi chilometri dai filari. “Nobile” è un marchio di proprietà di Calispa Spa, oggi alla terza generazione, che seleziona il meglio della produzione dandole un nome “nobile”, come il lavoro che da cinquant’anni viene svolto quotidianamente, controllando tutti i processi e garantendo al consumatore un prodotto sicuro, buono, sano e genuino.
La giovanissima Ilaria Di Leo, con il compagno originario di Vietri sul Mare, Nicola Gregorio, è alla guida del ristorante e anche dell’azienda di famiglia. Affiancata da un team di sala rispettoso delle regole dell’ospitalità, ha migliorato nel tempo le solide fondamenta già edificate dai suoi genitori, ristrutturando in maniera impeccabile la proprietà, in modo da ricavarne anche confortevoli alloggi in cui pernottare. La piscina è dotata anche di angolo cocktail per trascorrere piacevoli momenti en plein air, degustando un aperitivo accompagnato da finger food direttamente preparati in cucina. La struttura si presta molto bene per ricevimenti e feste private.
Michele De Martino, chef salernitano con un ricchissimo bagaglio di esperienze alle spalle, nelle più rinomate cucine salernitane e della Costiera Amalfitana (l'ultima durata due anni da Casamare a Salerno), ha accettato una nuova scommessa, lasciando la città ma sicuro di ritrovare a Fisciano tutto quello di cui un professionista della cucina ha bisogno: prodotti a Km 0, stimoli e fiducia in ciò che progetta quotidianamente. La degustazione dei piatti, originali, innovativi, capaci di non perdere mai d’occhio la tradizione, è risultata molto convincente.
Soddisfacente e intrigante, nelle sue tonalità amaranto, il cocktail di benvenuto analcolico "Bosco del Venezuela" (frutti di bosco, basilico, lime, zucchero di canna scuro, ginger ale, fava di Tonka), con sfiziosi appetizer dal fascino asiatico e latino, fra cui spicca il calzoncino fritto, simil empanada dominicana, con ricotta, salame e ketchup di San Marzano Nobile come topping.
Le chicche da provare sono però sicuramente la “seppia in carbonara” tra gli antipasti (una tagliatella di crudo di seppia, adagiata su crema cacio e pepe e guarnita con uovo alla Cracco, pancetta croccante e tenacoli fritti, una vera esplosione di sapori e consistenze) e il “riso è Nobile” tra i primi, un piatto apparentemente semplice ma di grande complessità, con base bianca al burro e parmigiano, guarnita poi con crema di pomodoro giallo e di pomodoro San Marzano, e in cima pomodorini arrostiti. Stessa cosa dicasi per la “triglia viene da Livorno”, un sandwich ripieno del rossiccio pesce di scoglio e salsa livornese, adagiato sulla sua bisque e arricchito da una scarolina capperi e olive che non manca mai nella cucina salernitana di De Martino.
Nel menù autunnale, il commensale potrà divertirsi nello scorgere crudi di mare, tartufi neri irpini, ortaggi di stagione, limoni profumatissimi, carni succulente come quelle di maialino, pasta artigianale di leggerissima fattezza, il pescato locale, pani e focacce autoprodotte in abbinamento ad olii cilentani e le aromatiche mediterranee.
Intento ad esporre i suoi piatti, lo chef ha aggiunto: “Adoro Gennaro Esposito, ma la mia è una cucina salernitana, oserei dire quasi antica e di recupero dei vecchi ricettari, in cui tecniche di conservazione come la scapece erano frequenti. A Salerno non esistono tantissimi piatti, ma milza o interiora, scarola, moscardini affogati, ciambotte di verdure e preparazioni in tegame non mancano mai. Qui al Nobi cercherò di riproporre quello che in pochissimi conoscono, a cui darò un tocco di contemporaneità, partendo sempre dalla materia prima che il vasto territorio campano offre. Sto anche pensando a dessert innovativi, tant’è che sto ampliando le mie conoscenze in materia”.
La cantina del Nobi spazia dai vini regionali a quelli nazionali e non mancano bollicine, champagne, grappe, whisky, cognac e passiti. Il dessert consigliato è il “cioccolati e lampone” con bisquit al cioccolato, cremoso ai lamponi, cioccolato fondente e cioccolato bianco, mini-capolavoro di bellezza per occhi e palato. Nobi affonda le sue radici in terreni annaffiati da passione, amore, talento; il suo modus operandi comincia proprio da qui, dalla nobilitazione del territorio e dei saperi agricoli, che diventano emozionali e magneticamente suggestivi.
Annamaria Parlato 12/09/2021
Metti una sera a cena in quel di Montoro a Casa Barbato: musica Maestro!
I profumi della campagna montorese tipici dell’estate settembrina, la falce di luna, le stelle argentate e l’ottima gastronomia di Casa Barbato. Con queste premesse, martedì 7 settembre alle ore 20 si è tenuto un evento enogastronomico singolare e ricercato proprio nella dimora della Ramata di proprietà dei Barbato, che da anni si battono per la valorizzazione e promozione dei prodotti agricoli territoriali attraverso iter certificati e tracciabili nel rispetto dell'ambiente.
Ospiti d’eccezione della serata, moderata in maniera impeccabile dal giornalista Annibale Discepolo de Il Mattino di Avellino, oltre alla stampa di settore il maestro Beppe Vessicchio, volto storico del Festival di Sanremo, e il Dott. Michele Scognamiglio, specialista in Scienze dell’Alimentazione e Nutrizione Clinica. L’incontro, fortemente voluto ed organizzato da Nicola Barbato, è stato il pretesto per poter discutere con l’esperto nutrizionista delle proprietà salutistiche della cipolla ramata di Montoro nell’ambito di una corretta alimentazione.
Il maestro Vessicchio ha intavolato un discorso da esperto gastronomo sulle antiche ricette che avevano ingrediente principale la cipolla, come la famosa “genovese”. Vessicchio, produttore del vino ReBarba, un Barbera d’Asti affinato con la tecnica dell’armonizzazione musicale, ricordava quando tempi addietro la genovese “pippiava” come il ragù sul focolare domestico per ore se non giornate intere. Il risultato che ne derivava era la cremosità rigorosa dell’intingolo che si mescolava agli ziti o alle candele spezzate a mano e ai pezzettoni di carne succulenta.
Discepolo ha dichiarato: "Due momenti di grande suggestione, divertimento, un modo nuovo di fare cultura attraverso esperienza e professionalità dei relatori Vessicchio e Scognamiglio, che si sono presentati con apparente leggerezza, usando un linguaggio familiare ed amicale, confidenziale, che inevitabilmente ha suscitato interesse ed affascinato e che martedì ne ha dato ampia contezza nel locale della famiglia Barbato in un viaggio emozionale ed emozionante".
Tra un intermezzo e l’altro, gli ospiti e i giornalisti presenti hanno avuto modo di assaggiare un menù a base di cipolla e delle pietanze più rappresentative del menù estivo dell’agriristorante guidato dallo chef Rinaldo Ippolito, come gli sfiziosi antipasti a base di verdure firmate GB Agricola (le zucchine alla scapece con baccalà e limone o il bao con stracotto di manzo e melanzane grigliate) e i robusti secondi di carni tra cui il galletto alla diavola, croccante e dorato con la sua salsina piccante d’accompagnamento. Non sono mancate le famose candele alla genovese e la parmigiana di cipolle.
L’Irpinia DOC Rosato Biologico del Cortiglio è stato abbinato a agli antipasti. Prodotto esclusivamente con le uve biologiche provenienti dal vigneto di Contrada Fosso Cavallo a Fontanarosa, è un vino ottenuto dalla vinificazione in bianco delle sole uve rosse aglianico. Caratterizzato da un fruttato ampio e tipico con note di ciliegia, è un vino dal gusto fresco e gradevole. Al galletto l'Irpinia Aglianico DOC della stessa cantina, un vino rosso giovane, affinato in acciaio, caratterizzato da un fruttato intenso di amarena e visciole, con note speziate e dal gusto morbido e gradevole.
Gli intriganti dessert, il Bignemisù e la Pesca & Mandorla a base di crostata con frangipane alle mandorle, bavarese alle mandorle e cuore di pesca, hanno stupito sul finale tutti i convenuti per la loro raffinatezza. Rinaldo Ippolito, agrichef di Casa Barbato con più di venti anni di esperienza in diverse zone d’Italia, in collaborazione con svariati chef stellati, propone solitamente una cucina che ha visto anche la consulenza di Paolo Barrale, giovane chef stella Michelin, di origine siciliane oramai naturalizzato irpino.
Francesco Savoia, casaro dell’omonimo e noto caseificio di Roccabascerana (AV), ha deliziato i presenti con un assaggio in diretta di pane abbrustolito sulla brace con il caciocavallo impiccato prodotto esclusivamente con il latte delle mucche “pezzata rossa”, un formaggio semiduro a pasta filata a latte crudo. Il caciocavallo impiccato è una tradizione antica praticata in varie zone del sud Italia soprattutto in Irpinia, Basilicata e nella provincia di Foggia.
La tecnica dell’impiccagione si dice sia stata scoperta per caso dai pastori che, per tenere lontani gli animali, appendevano i caciocavalli ai rami degli alberi. Una notte il calore del fuoco acceso troppo vicino ai caciocavalli avrebbe fatto sciogliere i formaggi. Ma il percorso degustativo è stato anche l’occasione per testare la leggerezza e la bontà delle pizze di Casa Barbato, realizzate dall’agripizzaiolo Lorenzo Grimaldi, subentrato ad Alessandro Montefusco già a partire dallo scorso maggio.
Il giovanissimo Grimaldi ha interagito con tantissimi chef di spessore, come Giovanni Mariconda, Raffaele Vitale, Tonino Pisaniello, Paolo Barrale. Il suo è un impasto fatto con un blend di farine della nota azienda Molino Vigevano delle pregiate qualità Tramonti e Oro Tipo, che garantiscono una pizza molto leggera, digeribile, saporita e realizzata con ingredienti di prima qualità, che da sempre contraddistinguono la bontà dei prodotti di Casa Barbato, come il pomodoro pelato dell'azienda Montorese Lina Brand, il fior di latte di Agerola, la mozzarella di bufala del Caseificio Principato, i formaggi di Carmasciando, i salumi Cillo, il prosciutto irpino di Giovanniello, l'olio evo Aprol, la mortadella di Bologna presidio Slow Food.
Grimaldi utilizza esclusivamente la biga come prefermento, ottenendo un impasto con un’idratazione al 70-75% che si lascia maturare per oltre 48 ore. Nella panificazione con metodo indiretto, la biga è un preimpasto ottenuto miscelando acqua, farina e lievito in proporzioni tali che esso risulti piuttosto asciutto (circa 450 g di acqua per 1 kg di farina e 10 g di lievito di birra fresco). Il risultato è quello di una pizza-nuvola, scioglievole e dal cornicione molto pronunciato. La cottura è stata testata più volte dal maestro Grimaldi sino a divenire uniforme e perfetta tanto da non rovinare o bruciare la pizza.
Francesca Barbato ha ammesso: "Anche se da un po' di tempo mio padre mi ha affidato la gestione del marketing aziendale, penso che si debba sempre credere nei giovani che cercano di crescere creando un futuro migliore; mettendo sempre al primo posto la passione! Solo con quest’ultima una persona può far valere il progetto che ha cercato di pianificare, facendolo diventare reale e produttivo; Lorenzo ha tutte le carte in regola per sposare le nostre idee in materia di agricoltura e sostenibilità attraverso la sua spettacolare pizza. Stiamo mttendo appunto un menù autunnale in cui inseriremo nuovi piatti con zucca e funghi porcini che arricchiranno anche le pizze".
Nicola Barbato ha continuato: "I giovani sono quelli che ci regalano sempre emozioni. Anche qui, nel nostro agriturismo come nei campi, c’è bisogno di innovazione e rinnovamento. Lorenzo Grimaldi è un giovane su cui io, mia moglie Luisa e i miei figli abbiamo creduto, perché loro sanno innovare e rinnovare apportando cosi valore aggiunto alla nostra realtà e al territorio".
Da standing ovation le pizze Ciaccarella (con wurstel artigianale di suino nero casertano alla senape, fior di latte di Agerola, sticky artigianali di patata rosina) e Hirpinia, un omaggio alla terra dei Barbato, con cipolla ramata di Montoro grigliata (confezionata dalla padrona di casa Luisa Tolino), salsiccia dell’azienda agricola Ferrara, blu di pecora Carmasciando e fior di latte di Agerola. Dove le parole finiscono, inizia la musica ma soprattutto il buon vino e il buon cibo.
Annamaria Parlato 21/08/2025
Fichi d'India, dal Messico al salernitano per trovare un habitat ideale
Introdotti in Europa dopo la scoperta dell’America e giunti in Italia nel XVII secolo grazie alla dominazione spagnola, i fichi d’India hanno trovato nel Sud e nella provincia di Salerno un habitat ideale, trasformandosi da pianta esotica a simbolo mediterraneo. Le prime coltivazioni si diffusero nelle Canarie e in Sicilia, sfruttando la loro capacità di resistere ad aridità e terreni scoscesi, da lì raggiunsero il resto del Mezzogiorno. Nel corso dei secoli furono utilizzati non solo come frutto ma anche come risorsa multifunzionale: nel XIX secolo le pale, private delle spine, venivano usate come foraggio, mentre il succo trovava impiego nella medicina popolare e oggi è base di cosmetici per le sue proprietà nutrienti e antiossidanti.
Nella provincia di Salerno il fico d’India è entrato a far parte del paesaggio: dai terrazzamenti delle zone costiere alle colline, le piante costellano campi e sentieri, a testimonianza di un radicamento secolare. Le varietà più comuni sono tre: il bianco o scetun, meno zuccherino e rinfrescante; il giallo o sulfarin, dolce e diffuso; e il rosso o sanguigna, aromatico e pregiato. Dal punto di vista nutrizionale, i fichi d’India rappresentano un concentrato di benessere: ricchi di vitamina C, potassio, magnesio e calcio, forniscono fibre che favoriscono la digestione e regolano il colesterolo, contengono polifenoli e betacarotene ad azione antiossidante e i semi custodiscono acidi grassi essenziali utili per la salute della pelle e del cuore.
Il ciclo stagionale del fico d’India ne amplifica il fascino: i frutti maturano generalmente tra agosto e settembre, mentre grazie alla tecnica della scozzolatura – che consiste nel taglio dei primi fiori – la pianta produce i cosiddetti bastardoni, frutti più grandi e succosi che arrivano a maturazione tra ottobre e novembre, rendendo possibile gustarli fino all’inizio dell’inverno. Per prolungarne la disponibilità, soprattutto in passato nelle campagne cilentane e salernitane, si ricorreva all’essiccazione: i frutti maturi venivano sbucciati, tagliati a metà e disposti su graticci al sole, protetti da teli sottili e rigirati ogni giorno fino a quando non perdevano gran parte dell’umidità. Così, in pochi giorni, si ottenevano dolci concentrati di energia da conservare per l’inverno, talvolta aromatizzati con foglie di alloro o scorze di agrumi. Oggi questo processo può essere replicato anche con essiccatori domestici o con una lenta cottura al forno a bassa temperatura.
In cucina offrono una sorprendente versatilità: sono protagonisti di confetture, granite, gelati, crostate e liquori artigianali, ma trovano impieghi anche in preparazioni salate, come insalate con rucola e formaggi erborinati, piatti di selvaggina e carni bianche, oppure salse agrodolci per accompagnare tonno e sgombro. La loro pulizia richiede attenzione: le spine sottili e invisibili impongono l’uso di guanti spessi o la tecnica di forchetta e coltello per incidere la buccia senza contatto diretto, mentre l’ammollo in acqua è un rimedio pratico per ridurre il rischio di punture.
Negli ultimi anni, oltre alla tradizione gastronomica, il fico d’India si è imposto come risorsa strategica per la sostenibilità. I cladodi, ossia le pale, possono immagazzinare fino al 90% di acqua e garantire tra 5 e 6 tonnellate di biomassa secca per ettaro in condizioni di scarsità idrica, arrivando fino a 40 tonnellate e a 20 tonnellate di frutti per ettaro in ambienti più favorevoli. Le pale potate, considerate un tempo scarti, si rivelano oggi preziose per i loro composti: mucillagini, fibre e fenoli trovano applicazioni nell’industria alimentare e nutraceutica come addensanti, pectina, collodi e antiossidanti.
Dalla bioedilizia alla produzione di pellicole biodegradabili, fino all’impiego come coltura energetica, il fico d’India si propone come alleato della transizione ecologica. Così, da frutto esotico originario del Messico a compagno silenzioso dei paesaggi salernitani, il fico d’India continua a intrecciare storia e futuro: simbolo di resistenza e adattamento, fonte di nutrimento e salute, protagonista di tavole mediterranee e, oggi, risorsa innovativa per una nuova idea di sostenibilità.