Dalla passerella ai fornelli: Paola Torrente e il suo "Nanou Lounge" a Salerno

La modella curvy lancia con il compagno Chester Babillon il primo ristorante italo-francese in città

Annamaria Parlato 28/04/2025 0

La bellezza non ha taglie, oggi non ha più confini neppure il gusto. Paola Torrente, modella curvy tra le più amate del panorama italiano, seconda classificata a Miss Italia 2016 e simbolo dell’accettazione del corpo e della diversità, ha deciso di portare la sua visione inclusiva anche nel mondo della ristorazione. Insieme al compagno Chester Babillon, chef di origini transalpine, ha inaugurato a Salerno "Nanou Lounge", il primo ristorante italo-francese della città che unisce la raffinatezza delle cucine di due Paesi e introduce anche una grande novità per il territorio: un angolo narguilè Shisha, per momenti di relax e socialità ispirati al Mediterraneo più ampio.

1) Paola, da Miss Italia alla ristorazione: come nasce l’idea di aprire Nanou Lounge?

"È stato tutto molto naturale. È una cosa che nasce da me e dal mio compagno Chester. Lui è chef, io sono appassionata di ristorazione, ci siamo resi conto che a Salerno mancava un posto che unisse due culture culinarie come quella italiana e quella francese. Inoltre, volevamo creare qualcosa di davvero inclusivo, anche nel modo di vivere il cibo e il tempo. Il nostro angolo narguilè, ad esempio, è un dettaglio che abbiamo voluto fortemente: è un momento di condivisione, di lentezza, qualcosa che stimola l’incontro tra persone diverse".

2) Com’è lavorare fianco a fianco con Chester? Quale ruolo ti sei ritagliata nel locale?

"Lavorare insieme è bellissimo, anche se ovviamente comporta una grande organizzazione. Chester è il cuore pulsante della cucina, io mi occupo di tutto il resto: dall'accoglienza alla comunicazione, alla gestione dei dettagli. Ognuno ha il suo ruolo, ma ci confrontiamo continuamente, perché condividiamo la stessa visione".

3) Cosa vi ha ispirati a fondere le due tradizioni culinarie? C’è un piatto simbolo che racconta questa unione?

"Salerno è sicuramente una città legata alla tradizione, ma l’ho sempre vista anche come una città molto aperta, con una forte cultura e predisposta al cambiamento. Abbiamo voluto fondere le due tradizioni per portare un po’ di freschezza, innovazione e gioventù in cucina. Un piatto che ci rappresenta molto è il Magret d’Anatra: tenera anatra scottata, servita con verza vivace, carote arrosto e una salsa infusa al prezzemolo. È una vera celebrazione della cucina fusion, molto ancorata al territorio".

4) Quanto conta oggi il concetto di inclusività anche nel mondo della ristorazione? Come lo esprimete da Nanou Lounge?

"Sicuramente da noi l’inclusività è all’ordine del giorno, già nel concept del locale stesso: una cucina italo-francese e non solo italiana. Anche nella scelta del personale, nei piatti e nell’accoglienza, cerchiamo di essere quanto più aperti possibile. Il menù stesso è pensato per accompagnare il cliente in ogni momento della giornata, dall’aperitivo alla cena, fino al dopo-cena con l’American Bar".

5) C’è un piatto che senti particolarmente tuo, che ti rappresenta?

"Più che un singolo piatto, sento mio il concetto di inclusività del menù: tutti i piatti sono stati scelti con cura e rappresentano il nostro modo di intendere la ristorazione come esperienza aperta, fluida, senza barriere".

6) Come ha reagito Salerno alla novità del narguilè Shisha?

"È stata accolta molto bene, soprattutto perché siamo gli unici ad averla. Ci viene a trovare chi ha già provato la Shisha altrove, ma anche tanti curiosi, soprattutto turisti e stranieri che ritrovano qui un po’ delle loro abitudini. È un’esperienza nuova per Salerno, siamo felici che stia funzionando".

7) Guardando al futuro: Nanou Lounge è solo l’inizio?

"Speriamo davvero di poter portare questo nostro concept innovativo anche altrove. L’entusiasmo c’è, le idee pure. Per ora ci concentriamo su Salerno, poi chissà..."

Con Nanou Lounge, Paola Torrente porta a Salerno un’idea nuova di ristorazione: inclusiva, aperta al mondo, pensata per tutti i sensi, un luogo in cui la bellezza si celebra a tavola, ogni giorno. Un messaggio potente accompagna il progetto: anche chi ha forme morbide, curve, corpi fuori dagli stereotipi può e deve sentirsi pienamente accolto, rispettato e libero di godere dei piaceri del cibo, avendo rispetto in ogni caso per la propria salute.

Perché la cucina non deve essere una gabbia di rinunce, ma uno spazio di libertà, gusto e affermazione. Anche un piatto con qualche caloria in più può raccontare una storia d’amore per se stessi e per la propria identità. E in questo, Paola ha trovato la ricetta perfetta.

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Annamaria Parlato 27/09/2021

L'Incartata a Calvanico è il ritorno alle origini del Bosconauta Michele

Può sembrare un romanzo, uno di quelli da cui il bravo regista potrebbe ricavare persino la trama di un film, e invece è una storia vera, quella di Michele Sica, il Bosconauta, nato a Calvanico il suo luogo dell’anima, una storia che ha avuto inizio certamente nel verde, il verde delle foglie di nocciolo e di castagno, il verde dei boschi alti dei monti, dei pomodori legati all’orto, del granturco non ancora spigato e dei fagioli che ad esso si aggrovigliano per conquistare la luce.

Michele lavorava a Roma come webmarketer in una grossa azienda di Web e SoftwareHouse della Capitale, poi ad agosto del 2013 arriva inaspettata la decisione di rientrare, il richiamo alla terra più forte di qualsiasi altra cosa lo spinge a costruire qualcosa di duraturo e significativo nella sua Calvanico, a Sud. Il cambiamento è dettato da una semplice constatazione: un albero ha radici in una terra. Lo stesso albero, se trasportato altrove, sarà un albero diverso (molto spesso anche migliore ma diverso).

“Io sentivo di dover tornare ad essere un albero della mia terra per restituire - così ha raccontato Michele - in parte, i frutti che questa terra mi ha donato. Allo stesso tempo sento che la terra è una, che di questi frutti tutti ne possono magiare e dunque mi sento albero del mondo, e dal mondo intero traggo linfa vitale”.

Nel 2013 parte il progetto “Incartata” assieme ad altri progetti collegati all’agricoltura organica, come Cumparete, una struttura territoriale di relazioni socio-culturali basata su rapporti di condivisione e collaborazione interpersonale, un’associazione informale di contadini contemporanei che condividono valori, semi e conoscenze per lo sviluppo di un’agricoltura organica, pulita, capace di costruire suoli fertilità per la biodiversità.

Facilmente raggiungibile poiché si trova a soli 4 km dall’uscita autostradale di Fisciano e dal Campus dell’Università di Salerno, la Residenza Rurale Incartata oggi è davvero la testimonianza di come un agriturismo, e un’attività agricola in generale, possano rappresentare una realtà innovativa e multifunzionale, interpretando la contemporaneità con una chiave di lettura diversa e cercando di trovare soluzioni nuove alla crisi del presente: con un’agricoltura rispettosa dell’ambiente e della biodiversità vegetale, animale ed umana, con una cucina semplice ma autentica, che attinge da quello che di meglio un territorio può offrire, con il coinvolgimento di una comunità con la quale creare relazioni non solo economiche ma sociali, per un rinnovato patto sociale.

L’Incartata è soprattutto una fucina di attività dedite alla ricettività rurale; la casa rurale è stata aperta ad eventi di rilievo nazionale ed internazionale: dalle summer school e workshop del progetto dell’Accademia Mediterranea di Societing, sede del progetto di ricerca Rural Hub, eventi di musica tra cui il più importante è certamente FOODSTOCK, eventi culturali, laboratori didattici per adulti, come i corsi di riconoscimento delle erbe spontanee, e per i bambini, come le sessioni di Coderdojo.

Inoltre Michele Sica ha seguito assieme a Tony Ponticiello, soprannominato Mr Time, un’altra interessante iniziativa: la Mappa a Passi di Calvanico che si è aggiunta a quella di Salerno. “Il cammino si fa... camminando” è il motto di Mr Time che traccia le sue mappe camminando e cioè mettendo un passo avanti all’altro ed andando incontro alle cose, considerando lo spostamento da un luogo ad un altro come esperienza di “momenti di vita”. Un “camminare” inteso quindi non per soddisfare solo il raggiungimento di una meta (jogging, trekking), ma per ritrovare un più sano equilibrio con se stessi: ogni passo infatti può diventare un'occasione per considerare il momento presente e per riconoscere la vita che ci circonda.

Spostarsi a piedi consente, infatti, anche dopo molti anni che si vive in un centro abitato, di continuare a scoprire dettagli e angoli che non si notavano in precedenza, di incontrare persone che conosci, di lasciarsi attirare da una vetrina, una targa, una locandina, dal particolare di un edificio o di un giardino, di provare percorsi alternativi per andare da A a B. Le mappe a passi invitano a riflettere sulla effettiva necessità di ricorrere ad un mezzo di locomozione motorizzato quando, valutate le distanze e il tempo necessario per lo spostamento, non sia invece preferibile spostarsi a piedi.

Ovviamente all’Incartata cammina di pari passo all’offerta formativa anche la proposta gastronomica che vede un’intera squadra all’opera: Sandybel, moglie di Michele e madre di Gherardo e Gabriel, è addetta alla pasticceria, Mamma Anna è in cucina, Mariangelica, sorella di Michele, è in sala. Il pranzo della domenica dell’Incartata rappresenta realmente ciò che il pranzo di ogni agriturismo autentico dovrebbe prevedere, cioè la sintesi di tutto ciò che di meglio offre la stagione e il territorio a partire dall’orto della casa, le aziende dei produttori locali di ortaggi, frutta e verdura che condividono i valori di agricoltura biologica, organica, sostenibile, pulita, i pastori e gli allevatori con le carni, i salumi e i formaggi realmente artigianali e liberi da ormoni, antibiotici e conservanti.

La Signora Anna in cucina interpreta con la sua passione e la sua personalità la tradizione della più autentica dieta mediterranea, prendendo dal passato e sperimentando con personalità in piatti dai sapori autentici, semplicemente complicati. Solitamente si inizia da un antipasto che prevede salumi e formaggi realmente artigianali e non finti industriali che senza senso vengono definiti paesani, pizze rustiche con ottima ricotta e verdure di stagione, sfizi vari che la chef Mamma Anna si inventa volta per volta come polpettine, involtini, creme e pesti, mousse e composte; le erbe spontanee con il vero Mallone Sciatizzo, di cui si conserva un’antica ricetta che si integra con l’approfondita conoscenza delle erbe spontanee commestibili.

La pasta è sempre fatta in casa con ottime semole di grano duro Saragolla e Senatore Cappelli. La carne proviene da una macelleria contadina che alleva in azienda i propri capi bovini e suini. Il pane è fatto con farine di grani teneri che si coltivano insieme agli amici della Cumparete per il progetto Grani del Futuro e del Forno di Vincenzo. Dolci torte e semifreddi tutti realizzati in casa, così come liquorini e amari, la carta di vini è campana e le birre sono artigianali. Non esiste dunque un vero e proprio menù fisso ma tutto è dettato dalle stagioni e dal calendario di eventi che cambiano tematica e finalità.

Il racconto di Michele e della sua famiglia è avvincente appassionante, lui ha riportato tutto nel suo spazio virtuale, il suo diario da Bosconauta in cui ha scritto: “Così il mio posto, per il momento, l’ho scelto a Calvanico: una vecchia casa colonica, già sede di un agriturismo, in località Incartata. Per estensione quindi, la casa stessa e terreni circostanti sono identificati come A ‘Ncartata. Mi sono messo fin da subito alla ricerca dell’origine del nome scoprendo che esso è un toponimo abbastanza diffuso, anche nelle varianti Cartado, Cartata, e deriverebbe quindi da un gergo notarile: una proprietà fissata sulle mappe, sulle carte, posta al registro.

Io ne sto sperimentando una nuova deriva semantica che potrebbe essere di radice longobarda. Io sentivo di dover tornare ad essere un albero della mia terra per restituire, in parte, i frutti che questa terra mi ha donato. Allo stesso tempo sento che la terra è una, che di questi frutti tutti ne possono magiare e dunque mi sento albero del mondo, e dal mondo intero traggo linfa vitale. Mentre scrivo davanti a me un albero di pero, un vecchio albero di pero di una varietà antica, e pere e vierne (pere d’inverno), inclinato dal tempo, dal vento o da chissà cos’altro, mi illumina di verde. E’ l’alba di domenica 7 luglio 2013, e sono a Calvanico, all’Incartata. Un anno fa, appena un anno fa, ero a Roma”...

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Annamaria Parlato 22/01/2023

Vlad Dracula "strega" l'Augusteo di Salerno, la nostra rilettura "gastronomica"

Nonostante le condizioni meteo avverse con grandine, pioggia, vento e gelo, sala gremita al teatro Augusteo di Salerno, e di giovani che finalmente ritornano al teatro, riappropriandosi del suo fascino. Il musical Vlad Dracula, diretto dal salernitano Ario Avecone, lo scorso 6 gennaio si presentò alla città attraverso un singolare flash mob tra le strade del centro, in preda alla folla delle Luci d’Artista, inscenando un corteo di giovani donne in abiti da sposa illuminate dalla luce fioca delle candele (le spose di Dracula) e suscitando enorme curiosità tra i passanti.

Venerdì 20 gennaio, alle ore 21:00, la prima delle tre serate ha registrato il tutto esaurito nelle vendita dei biglietti, a riprova che il genere noir o gotico ha un elevato potere attraente e attrattivo. Gioco di luci strepitoso, a cura di Alessandro Caso, lo spettacolo si è palesato come un’originale rivisitazione del romanzo di Bram Stoker, innovativa ed estremamente contemporanea, a tratti futuristica.

Vlad, interpretato dal salernitano Giorgio Adamo, è alla ricerca spasdomica della sua Elizabeth, che ritrova negli occhi della seducente Mina, moglie del giornalista Jonathan Harker. Tanti gli spunti di riflessione e gli interrogativi che il palcoscenico ha posto all’attenzione del pubblico: temi ambientalisti, il ruolo della stampa e dei giornalisti, il potere della tecnologia che può agevolare l’uomo ma anche distruggerlo con le sue bizzare macchine.

Vlad Tepes è sicuramente meno assetato di sangue e più umano, quasi un nostalgico romantico di un passato che non ritornerà, un vampiro dall’animo poeticamente addolorato per la perdita della sua amata ma non rassegnato, insomma un assassino che si lascia quasi “catturare”, mettendo a nudo le sue angosce e fragilità. Le scenografie, realizzate da Michele Lubrano Lavadera, sono ambientate nell’epoca post-industriale di fine 800 dal sapore steampunk e fantascientifico.

Un fiume di applausi ha concluso la serata, durata all'incirca due ore, godibilissima, testimonianza della creatività salernitana, un esempio di come al Sud si possano creare dei piccoli gioielli grazie al lavoro di squadra e alla bravura del team di attori che, con sacrificio, già in epoca Covid vi ha lavorato assiduamente. Avecone ha dichiarato: “Non ci speravamo più, abbiamo rinviato tante volte la tournée per via della pandemia e della chiusura dei teatri. Pensavamo di non farcela e di non ritornare più sul nostro palcoscenico, ma stasera siamo qui e sono orgoglioso della mia squadra, composta da professionisti talentuosi. Questo è il Sud che piace. Spero che Salerno ci porti fortuna e che le altre regioni d’Italia apprezzino il nostro innovativo spettacolo”.

Da Vlad a Dracula: storia e leggenda del vampiro più noto al mondo intero

Chi non conosce il vampiro più famoso del pianeta, il più sanguinario e spietato associato alla nebbiosa terra di Transilvania? Tutte le arti lo hanno sempre descritto in maniera fantasiosa, ma c’è anche un fondo di verità nella sua storia. La Transilvania, che si trova al centro della Romania, è circondata da tre parti dalle montagne dei Carpazi. Proprio qui nasce il personaggio Dracula, che dal suo castello getta panico e terrore tra le popolazioni dei villaggi circostanti.

Nel XV secolo, Enrico VI e gli Inglesi combatterono nella guerra delle Tre Rose, quando re dell’Ungheria fu il rumeno Matei Corvin e quando Mohamed II cercava di conquistare l'Europa cristiana. In questo frangente, ragioni diverse causarono la trasformazione del re della Valacchia (provincia romena) in un vampiro sanguinario. Vlad Tepes III o l’Impalatore regnò in Valacchia dal 1448 al 1476 e con la sua morte finì anche il suo regno. I ritratti lo presentano con folti baffi, naso adunco, occhi grandi e sguardo penetrante. Vlad III fu chiamato Dracula perché ereditò il soprannome del padre Vlad II chiamato Dracul, dall’ordine del Dragone. Dracula, o più correttamente Draculea, appartiene alla categoria dei nomi romeni che terminano in “ulea”.

Vlad III, conquistato il potere, fu spietato e sanguinario. Le violenze erano tra le più terribili, come il massacro del 1460, nel giorno di San Bartolomeo, quando in una città della Transilvania furono impalate 30.000 persone. Da quegli atroci delitti, Vlad III divenne per tutti Dracul, il demonio. Il principe in persona nel suo diario racconta delle carneficine, del cannibalismo e del modo in cui impalava le vittime, tra le quali bambini e donne, ma anche vergini di cui si narra raccogliesse il sangue per berlo con vino ed alcol. I pali che servivano per uccidere i nemici erano studiati per accelerare o rallentare l’agonia, e a seconda della vittima usava pali diversi. Questi accadimenti storici ispirarono sicuramente lo scrittore Stoker per dar vita al suo famoso romanzo, pietra miliare nella letteratura vampirica.

Se Dracula diventasse per un attimo umano, cosa apprezzerebbe maggiormente a tavola?

Il musical, la storia e la letteratura hanno fatto sorgere spontaneamente, in chi scrive e si occupa da tempo di enogastronomia, questo interrogativo. Probabilmente il conte non abbandonerebbe del tutto il sangue ma andrebbe alla ricerca di preziosi alimenti richiamanti e contenenti il liquido rosso. Partendo dalla scelta del vino, si orienterebbe verso pregiati rossi italiani, come il Sangue di Giuda DOC dell’Oltrepò Pavese che può accompagnare formaggi stagionati, primi corposi, salumi oppure, nella variante dolce, dessert secchi a base di confetture come le crostate; o il Sangue di Drago, meglio noto come Teroldego Rotaliano DOC, un vino che nasce da un vitigno autoctono del Trentino, dal colore intenso, quasi nero, corposo e ricco, ottimo se abbinato alle carni succulente.

Un cocktail che piacerebbe di sicuro a Dracula potrebbe essere un classico Bloody Mary a base di vodka, succo di pomodoro e spezie piccanti o aromi come la salsa Worcestershire, il tabasco, il consommé, il cren, il sedano, il sale, il pepe nero, il pepe di Caienna e il succo di limone, forse associato alla figura di Maria I d’Inghilterra, detta la Sanguinaria. Tra i cibi non disdegnerebbe carni alla brace dalla tipica cottura al “sangue”, insaccati con sangue come i boudin alpini, le mustardele piemontesi, i sanguinacci lombardi, i mallegati toscani, i sangùnèt pugliesi, i mazzafegato umbri, le susianelle laziali, i sanguineddi sardi.

Ancora, ingurgiterebbe sanguinacci campani al cioccolato, oggi privi di sangue di maiale perché in Italia dal 1992 ne è stata vietata la vendita, compagni fedeli di chiacchiere nel periodo carnevalesco anche in Basilicata e Calabria; il migliaccio di Carnevale, che anticamente era a base di sangue e miglio, il sangue fritto di maiale cotto con alloro, scorze di agrumi e poi soffritto in padella con sugna e cipolle, condimento ideale per gli spaghetti, la torta di sangue tipica del settentrione con formaggio, latte e pangrattato.

Nei secoli, l’uso del sangue per scopi alimentari fu spesso vietato. Nell’ebraismo biblico il tabù del sangue risale alla notte dei tempi. Il Genesi descrive le prime generazioni di uomini come vegetariani, con un’alimentazione prevalentemente a base di frutta. Nel VII secolo d.C., precisamente nel 692, il Concilio Quinisesto (Quinisextum), tenuto a Costantinopoli, vietò espressamente il consumo di qualsiasi alimento contenente sangue. Solo più tardi, a partire dalla fine del XIX secolo, gli alimenti contenenti sangue come ingrediente cominciano ad essere tollerati. Dracula in ogni caso nel XXI secolo avrebbe l’imbarazzo della scelta, storcerebbe un tantino il naso per agli e cipolle ma resterebbe soddisfatto di un sanguigno percorso degustativo tra i prodotti tipici regionali italiani.

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Annamaria Parlato 20/09/2020

La tavola di San Matteo e le specialità gastronomiche salernitane

Il 21 settembre, giorno attesissimo dai salernitani, si svolge la festa patronale in onore di San Matteo, con una processione immensa che attraversa il centro storico, percorre Corso Vittorio Emanuele, scende per Via Velia, sfila lungo Via Roma e rientra, infine, su Via Mercanti fino al Duomo. I tre busti d’argento dei Santi Martiri Salernitani, Anthes, Gaio e Fortunato, simpaticamente definiti dal popolo come le “tre sorelle” di San Matteo per i loro lineamenti delicati, aprono la processione.

Le statue di Papa Gregorio VII e di San Giuseppe sfilano per seconde e a chiudere il corteo - da ultima - la statua argentea di San Matteo (la cui gemella è conservata nella cripta, posta di spalle all’altra, in modo che il volto sia visibile da ogni lato e da qui l’usanza di dire che il santo abbia due facce), ornata di fiori e trasportata a braccia dai lavoratori del porto che da generazioni si tramandano l’onore di sorreggere il santo, trascinandolo in una corsa finale lungo le scale del Duomo a metà tra misticismo e magia.

In occasione delle celebrazioni si organizzano concerti bandistici di fama nazionale e internazionale, per le vie cittadine o a Piazza Amendola. La festa ha termine dopo lo splendido spettacolo di fuochi pirotecnici di mezzanotte, sparati anche sull’acqua. Il classico colpo finale pone ufficialmente fine ai festeggiamenti in onore del Santo Patrono. Questo in sintesi il programma della manifestazione (prima del Covid), che spesso subisce alcune variazioni e che sicuramente è ben diverso da quello di tantissimi anni fa. Da Largo Campo a Porta Catena, passando per l’Annunziata sino ad arrivare alla Villa Comunale, una scia di profumi di cibi freschissimi inonda l’aria cittadina, tra cui pesci, frutta, verdure e dolci della tradizione.

Ogni massaia si adopera già a partire dal 20 settembre per avviare il pranzo luculliano che seguirà il giorno dopo, in cui amici e parenti riuniti intorno al desco si rimpinzeranno a dovere prima di affrontare il lungo percorso della processione. Cinquant’anni fa era già di moda lo “street food” con le mitiche bancarelle che sul lungomare distribuivano panini ripieni di prodotti semplici, lupini e ceci arrostiti, specialità di mare per quelli che potevano permetterselo, giunti perfino da dai paesi di provincia per onorare il Santo.

Attualmente il pranzo tipico è composto da un antipasto di maruzzelle o lumachine piccanti al peperoncino e prezzemolo, da un primo di spaghetti alle vongole, un secondo di frittura di pesce accompagnato da verdure di stagione e parmigiana di melanzane. Altro sfizio presente sulla tavola di San Matteo è la “meveza ‘mbuttunata” ossia la milza vaccina imbottita di menta e peperoncino (un piatto poverissimo che si perde nella notte dei tempi), cotta per diverse ore in vino rosso e aceto bianco sino alla caramellizzazione della parte alcolica di questo piatto.

Infine frutta secca/fresca tra cui fichi e uva sanginella, una varietà autoctona salernitana dalla buccia sottilissima, pressoché scomparsa, recuperata da alcuni appassionati viticoltori locali nelle colline intorno a Giovi; ha grappoli di media grandezza, acini fitti ed allungati, carnosi, dolci, poco sugosi, polpa croccante che matura in agosto; il colore dell'acino varia, secondo l'esposizione solare, da verde a giallo dorato. Per concludere, sfogliatelle ricce delle antiche pasticcerie del centro storico e vino in abbondanza per spegnere la sete.

Per preparare la milza di San Matteo, che sarà poi il ripieno del classico panino da mangiare in strada, occorrono la milza intera di vitello, abbondante prezzemolo, 2 spicchi d’aglio, 500 gr di aceto rosso, 500 gr di vino rosso, 2 cucchiai di mosto cotto, peperoncino, olio extravergine d’oliva e sale.

Si prende la milza e si crea un buco al centro dopo averla pulita, eliminando grasso e pellicine. Il buco serve per il ripieno di prezzemolo, peperoncino, aglio e sale. Dopodichè si aggiunge l’olio extravergine d’oliva, si chiude la sacca e in una padella si fa soffriggere da ogni lato con dell’aglio, innaffiandola con il mix di aceto e vino e il mosto. Si fa cuocere a fuco lento per un’ora e mezza circa. A cottura ultimata si lascia raffreddare, la si taglia a fette dello spessore di 2-3 cm facendo attenzione che il ripieno non fuoriesca dalla tasca (ricetta dell’Antica Macelleria Matteo Accurso di Salerno tratta dal libro “Note di cucina salernitana - Storie e Ricette” del giornalista Alfonso Sarno).

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