Riconoscere lo stalking e "gestirlo" con il comportamento appropriato
Una forma malata d'amore, identificata con questo termine nel 1996
Francesca Guglielmetti 27/04/2022 0
L'ultima si chiamava Anna, aveva trent'anni, un lavoro, una famiglia, degli amici, un amore. No scusate, un amore no, un amore non lo aveva. L'amore è altra cosa da quello che Anna credeva di aver incontrato. Qualcuno, sbagliando ad individuare l'origine etimologica, ritiene che la parola "amore" significhi letteralmente "a mors" e cioè "senza morte". Visto così l'amore è una romanticheria da foglietto dei cioccolatini, un desiderio forse ingenuo: poter incontrare qualcuno con cui celebrare la vita, costruire una reciprocità che aiuti a crescere, a migliorarsi.
Quella in cui tante donne si imbattono è una relazione che, invece, rende loro la vita impossibile e che porta le più sfortunate addirittura a trovare la morte in quello che pensavano fosse un sentimento gioioso e vitale. Oggi questa forma malata d'amore, perpetrata per lo più (ma non sempre) dagli uomini a danno delle donne, ha un nome: stalking. Era il 1996 quando per la prima volta l’australiano Meloy, nei suoi studi in ambito psichiatrico e forense, utilizzò il termine per individuare “un comportamento ostinato e reiterato di persecuzione e molestie nei confronti di un’altra persona”.
Prima di allora "stalking" era solo una parola usata nel gergo venatorio per individuare la "caccia in appostamento", o "caccia furtiva" o, a partire dagli anni '60, per riferirsi al continuo e molesto assedio di ammiratori psichicamente disturbati ai danni di persone famose (star-stalking). Successivamente, anno dopo anno, vittima dopo vittima, il termine stalker è stato utilizzato per individuare chi è affetto dalla "sindrome da molestatore assillante". Perché di questo si tratta: non di "eccesso di amore", non di "carattere", non di "un periodo difficile" ma di una sindrome, ossia di una patologia caratterizzata da una serie variegata di sintomi che, anche se in misura diversa da soggetto a soggetto, fanno dello stalker un "molestatore assillante".
Grazie agli studi effettuati soprattutto nei Paesi anglosassoni, è possibile riconoscere cinque diverse tipologie di stalker. C'è il "risentito", generalmente un ex partner che non accetta la rottura della relazione vissuta come immotivata o comunque ingiusta. Lo stalker "risentito" vuole danneggiare, far soffrire la vittima (l'ex partner), svilendone l'immagine, rovinando oggetti di sua proprietà o arrivando ad attacchi diretti (sia verbali che fisici). Le motivazioni logiche e razionali con lui sono del tutto vane poiché egli è profondamente convinto di aver subito un torto inaccettabile.
Il "bisognoso d'affetto": presenta carenze affettive o una fragilità psicoemotiva (che spesso sfociano in vere e proprie patologie psichiatriche). Egli non è in grado di sintonizzarsi correttamente con l'altro. Empatia, atteggiamenti di accoglienza e gentilezza sono interpretate da costoro come il segno di un interesse affettivo/sessuale. Anche la negazione esplicita da parte della vittima dell'interesse supposto non scoraggia questo tipo di stalker, poiché egli ritiene che il rifiuto sia legato a una qualche difficoltà psicologica della vittima, non certo sua, a riconoscere l'esistenza di un sentimento. Pertanto, nonostante i rifiuti, egli ritiene che, attraverso la pazienza e la determinazione, alla fine raggiungerà il suo scopo.
Il "corteggiatore incompetente": inizialmente la persecuzione messa in atto da questo tipo di stalker è blanda e può essere confusa con un maldestro tentativo di corteggiamento. Ritroviamo tra questo tipo di stalker il vicino di casa, il collega di lavoro, il conoscente che con i suoi reiterati ed inopportuni tentativi di aggancio generano malessere, ansia e timore per la propria incolumità nel destinatario; attenzioni né richieste né incentivate. Si tratta dello stalker forse più facile da gestire: impulsivo e assillante nella fase iniziale, appare meno determinato nel tempo e, in assenza del riscontro atteso da parte della vittima, tende a stancarsi abbastanza in fretta.
Il "respinto" è generalmente un ex che oscilla tra il desiderio di ristabilire la relazione e quello di vendicarsi per l’abbandono. Per questo tipo di stalker la persecuzione rappresenta comunque una forma di relazione in grado di rassicurarlo rispetto alla perdita totale della persona amata, percepita come intollerabile. Costoro non si lasciano intimorire dalle reazioni negative manifestate dalla vittima.
Il "predatore": è forse lo stalker più pericoloso, dal momento che il suo scopo primario è riuscire ad avere rapporti sessuali con la vittima che egli provvede a pedinare, inseguire e spaventare in vario modo. I comportamenti atti a far sentire in pericolo la vittima, ed esercitare su di essa un potere, generano in questo soggetto una irrinunciabile sensazione di esaltazione mista ad eccitazione. Questo genere di stalking assume la forma di una vera e propria "caccia alla preda" che si può indirizzare anche verso i bambini. Spesso lo stalker "predatore" è affetto da disturbi psicopatologici che interessano la sfera sessuale.
Tutti hanno in comune una caratteristica: la vittima è considerata come priva di ogni diritto e diviene solo un oggetto da “utilizzare” per soddisfare i propri bisogni. Essere stata oggetto di stalking mina ovviamente in maniera incisiva l'equilibrio della vittima, che viene violata nella sua dimensione privata. Spesso, la paura per quello che sta accadendo favorisce l’isolamento e, di conseguenza, rende più difficile chiedere aiuto. Il senso di pericolo e di insicurezza, soprattutto se reiterato nel tempo, può evolvere in una vera e propria sintomatologia nelle vittime di stalking: isolamento sociale, distacco emotivo dall’ambiente, affettività ridotta e una visione negativa del futuro sono le difficoltà che queste persone possono dover affrontare anche per molto tempo.
È bene ricordare che dal 2009 la legge tutela le vittime di stalking e punisce gli autori di atti persecutori. È fondamentale però che, prima ancora della legge, sia la vittima stessa a porsi in una condizione di protezione e tutela attraverso dei necessari accorgimenti: se ci si trova da sole con lo stalker (cosa che andrebbe sempre evitata) è molto importante evitare di urlare o imprecare, poiché la rabbia potrebbe essere interpretata come passione.
Dal momento che anche un sorriso però potrebbe essere inteso come un segno di affetto, bisognerebbe assumere un comportamento caratterizzato da una fredda calma. Soprattutto se si tratta di una persona che ha bisogno di cure, le risposte possono essere completamente fraintese, tanto che anche la restituzione di un regalo, una risposta negativa a una telefonata o a una lettera vanno evitate. La vittima dovrebbe interrompere il prima possibile anche i contatti indiretti (rendendo tutti i profili sui social visibili solo agli amici e non pubblici e bloccando il numero dello stalker nella rubrica del telefono) in modo da non alimentare, anche se inconsapevolmente, il comportamento persecutorio, favorendone un crescendo devastante.
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Francesca Guglielmetti 14/02/2024
Il mare per rinvigorire la mente stanca, un ripascimento dell'anima
Dopo il ripascimento della zona orientale del litorale salernitano, ormai concluso da tempo, è partito da pochi giorni l’intervento che riguarderà il tratto di costa che parte dal Polo Nautico ed arriva alla foce del fiume Sele.
Onestamente, il termine "ripascimento" riferito alla spiaggia mi ha sempre incuriosito e, allora, Internet alla mano, ho scoperto che "Il ripascimento, in inglese beach nourishment, in geomorfologia e in geologia è il fenomeno naturale di riporto lungo i fiumi, i laghi e le coste marine, di quantità di sabbia per l'azione dello scorrere delle acque lungo i fiumi e per l'azione delle onde e delle correnti in mare. Il termine letteralmente significa 'ridare da mangiare', 'nutrire nuovamente' per il pascolo degli animali. In questi casi il soggetto è la costa, dove viene rimpiazzato il materiale perduto con l'erosione".
Ecco, così in realtà mi torna meglio! "Ripascere" la costa cittadina, al di là dell'evidente, positivo, impatto di immagine per una Salerno sempre più orientata ad offrirsi come meta turistica, offre la possibilità anche ai cittadini di godere degli indubbi vantaggi di poter "ripascere", nel senso di dare nuovo nutrimento, il benessere psicologico. Intuitivamente tutti noi attribuiamo al mare la capacità di nutrire la nostra anima. Il mare è un’esperienza totalizzante, spesso in grado di attivare un vero e proprio stato di felicità.
Il contatto con il mare riesce a coinvolgere, contemporaneamente, tutti e cinque i sensi: la vista con la bellezza dei colori dell’acqua; l’udito col moto delle onde; l’odorato col profumo della salsedine; il tatto con la sensazione dell’acqua (o della brezza del mare anche quando non ci si immerge) sulla pelle; il gusto con il sapore di sale. Al ricercatore e biologo marino californiano Wallace Nichols va dato il merito, tuttavia, di aver studiato questa intuizione e di aver reso pubblici i risultati ottenuti nel suo libro, uscito pochi anni fa, dal titolo “Blue Mind: la scienza sorprendente che mostra come stare vicino, sopra, dentro o sotto l’acqua possa renderti più felice, più sano, più connesso e migliore in ciò che fai”.
Nel testo si distingue tra una “red Mind” o una “blue Mind”. La prima è propria delle condizioni di vita caratterizzate dal frenetico movimento, tipico della vita stressante delle metropoli. La Blue Mind, invece, che mi auguro sarà possibile stimolare sempre di più grazie, appunto, all’intervento di ripascimento, è propria di uno stato di vita più calma e sereno. Coltivare una Blue Mind è possibile attraverso il mare, poiché è proprio questo elemento che consente di rinvigorire le menti stanche (soprattutto quelle stressate dalla tecnologia), aumentare i livelli di creatività, di empatia ed anche di generosità e di compassione, ma anche di rafforzare il sistema immunitario e diminuire l’ansia.
Francesca Guglielmetti 06/08/2022
La "serendipità" che Salerno è in grado di offrire, da Pastena a Santa Teresa
Serendipity non è "serenità". E non è nemmeno il banale "colpo di fortuna". Serendipity è uno stato d'animo, una predisposizione dello spirito che ci può aiutare a vivere con maggiore pienezza. Il termine fu coniato da Horace Walpole, uno scrittore del XVIII secolo, per sintetizzare in una sola parola la predisposizione d’animo che riconobbe in sé mentre, analizzando un dipinto del Vasari, scoprì qualcosa di inaspettato.
In realtà, per stessa ammissione di Walpole, la parola deriva da una fiaba persiana intitolata "Tre prìncipi di Serendippo": da Serendib, il nome antico dello Sri Lanka. Serendipity si può tradurre più o meno così: "Non ti cercavo, non ti aspettavo, ma sono stato fortunato a incontrarti" o, meglio, seguendo il sito della Garzanti, è "lo scoprire qualcosa di inatteso e importante che non ha nulla a che vedere con quanto ci si proponeva o si pensava di trovare".
Fu dunque la serendipity a permettere a Cristoforo Colombo di scoprire l’America mentre cercava di andare nelle Indie Orientali, e sempre di serendipity si trattava quando Fleming scoprì la penicillina o quando Nobel inventò la dinamite e via seguendo, fino ai nostri giorni; dal microonde al viagra bisogna sempre dire grazie a quanti sono riusciti a cogliere le opportunità offerte dalla serendipity. Ci si predispone alla serendipità quando, pur essendo attenti e vigili, procediamo senza uno scopo preciso (può sembrare un controsenso ma non lo è, c’è solo bisogno di allenamento).
Se riusciamo ad attivare questa particolare attitudine alla scoperta, il nostro cervello (come ha recentemente dimostrato una ricerca condotta presso l’Università di Roma) rimarrà "spiazzato" da ciò che vede e ciò consentirà all’informazione di rimanere impressa più a lungo nella corteccia visiva. Dall’amore alle scoperte scientifiche, dall’apprendimento alla gestione del lavoro, ogni campo può trovare giovamento dall’applicazione di questa particolare forma di pensiero creativo, sino ad arrivare alla "serendipity walk".
Così, temperature permettendo, se vi concedete il permesso, potreste trovarvi (che siate turisti o salernitani doc) a scoprire quanta serendipità Salerno è in grado di offrire. Se siete nel quartiere di Pastena, ad esempio, magari al tramonto, potreste trovarvi per caso (sono quasi certa che non esistono indicazioni per raggiungerlo) rapiti dalla bellezza del "Porticciolo": pescatori e reti, case direttamente sul mare e, con un solo colpo d’occhio, la costiera cilentana e quella amalfitana distese davanti a voi.
Se vi dirigete in centro città, allontanandovi giusto un pò dal bellissimo ma "scontato" Duomo, vi potreste imbattere nell’insolita e macabra bellezza del portale della chiesa dei "Morticelli" e trovare, sempre inaspettatamente, non un posto in cui pregare (la chiesa è stata sconsacrata ormai da anni) ma un ritrovo "laico" e trasversale. Serendipity è accettare che un luogo non è come ce lo aspettavamo o come siamo sempre stati abituati a vederlo.
Accade così che si faccia del calcio dove di solito si fa il bagno (Santa Teresa) o del teatro in una piazza piccola piccola, circondata da case nel bel mezzo del centro storico (largo dei Barbuti), o che i muri si trasformino in libri di poesie (quelle di Alfonso Gatto piacevolmente sparpagliate in tutto il centro storico). E allora in questo caldissimo mese d’agosto facciamo, complice Salerno, della serendipity la nostra bandiera e dell’Io Non Cerco Trovo (Picasso) il nostro motto.
Francesca Guglielmetti 08/07/2022
Salerno fra vocazione turistica e degrado, l'approccio della "finestra rotta"
Da molto, troppo tempo, Salerno si trova ad essere rappresentata attraverso due diverse narrazioni. Da una parte, quella che si crogiola nel descrivere una città “a vocazione turistica”; dall’altra, quella che si attarda indignata a documentare la sciatteria, se non il vero e proprio degrado urbano che affligge trasversalmente praticamente tutti i quartieri. Sullo sfondo un’unica colonna sonora: episodi di criminalità che si ripetono sempre più di frequente. Un caso? Decisamente no se, come ci suggerisce la teoria della “finestra rotta”, proviamo a considerare il degrado urbano e gli episodi di devianza come fenomeni interconnessi.
La teoria prende le mosse dal famoso esperimento sociale condotto negli anni ’60 dal sociologo Philip Zimbardo. Egli fece parcheggiare un’automobile senza targhe a New York, nel malfamato quartiere del Bronx, ed una uguale in una strada di Palo Alto, ricca cittadina della California. L’auto nel Bronx fu vandalizzata dopo soli dieci minuti dal suo ‘abbandono’. L’auto parcheggiata a Palo Alto rimase intatta per più di una settimana, ma non appena lo scienziato ne frantumò un finestrino con un martello, accadde che ben presto anche i cittadini della ricca città californiana presero a comportarsi come gli abitanti del Bronx, distruggendo l’auto nel giro di poche ore.
La teoria fu poi ripresa nel 1982 da Wilson e Killing, che nell’articolo “Broken Windows” ampliarono gli studi di Zimbardo, arrivando a formulare un vero e proprio approccio conoscitivo sul quale ormai si fondano numerose strategie per la prevenzione ed il contrasto della criminalità. Secondo tale visione, un ambiente che viene mantenuto ordinato e pulito veicola al cittadino il segnale che l’area è tenuta sotto controllo e che un qualsiasi comportamento criminale non verrà tollerato.
Viceversa, un ambiente urbano disordinato o, addirittura, degradato (ad esempio per la presenza di facciate degli edifici fatiscenti, muri imbrattati di scritte, presenza eccessiva di rifiuti per strada o aree verdi trascurate ed invase da erbacce) invia il segnale che il territorio non è monitorato e che un comportamento incivile, o, peggio, criminale, ha uno scarso rischio di essere rilevato. L’ambiente urbano, oltre ad essere il “biglietto da visita” della città per i turisti, ha un vero e proprio potere comunicativo rispetto alla presenza di regole e di come ci si adoperi per farle rispettare.
Ognuno di noi, più o meno consapevolmente, cercherà nell’ambiente circostante degli elementi in grado di rendere esplicite le più comuni norme sociali ed anche il rischio che si corre nel violarle. Banalmente, in un luogo privo di cestini, è più facile che ci si abbandoni alla tentazione di lasciare in giro dei rifiuti; se poi non si provvede non solo a dotare le aree urbane dei necessari arredi ma, addirittura, le si lascia sporche e prive di cura e manutenzione, si permette al cittadino di maturare la convinzione che quel dato luogo sia privo di controllo sociale informale.
Non è tanto la “finestra rotta” in sé ad essere importante, ma il messaggio che essa veicola, ossia l’indifferenza e la vulnerabilità della comunità e, anche, la mancanza di coesione delle persone all’interno della comunità stessa, la loro incapacità di occuparsi dell’ambiente in cui vivono. Pertanto sarebbe utile assumere una visione un po’ più ampia che ci aiuti ad andare al di là della mera constatazione dell’avvilente stato in cui versa ormai Salerno e delle lamentazioni per le inefficienze delle Istituzioni. La teoria della “finestra rotta” dovrebbe stimolare tutti noi ad occuparci del luogo che ci accoglie, di quella città che prima di essere “turistica” dovrebbe essere appunto “nostra”.