I vini di Salerno in tour nelle cinque province campane

L'iniziativa parte dal 4 Maggio ed è promossa dal Consorzio Tutela Vini Salerno

Redazione Irno24 02/05/2023 0

Cinque appuntamenti da non perdere nel mese di Maggio all'insegna del "vigneto Salerno", nel contesto del progetto CampaniaWine. Il Consorzio Tutela Vini Salerno, infatti, propone un tour nelle cinque province campane (in basso la locandina), finalizzato a sviluppare la conoscenza dell'identità delle DO/IG e del territorio, attraverso incontri divulgativi e degustazioni.

A partire dal 4 Maggio, sono in programma cinque serate-aperitivo: si comincia dal casertano e si chiude in Irpinia (il 30 Maggio), passando per Salerno (il giorno 5), Napoli (il 16) e il beneventano (il 17).

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Annamaria Parlato 29/11/2022

"Sorbole", che bontà: frutto tipico del salernitano ormai raro e dimenticato

Un frutto che pochi ricordano sono le sorbe, piccoli portafortuna molto diffusi tra contadini e pastori, consumati durante il periodo invernale e natalizio. I frutti venivano in passato usati a scopo alimentare, ma oggi non vengono quasi più adoperati. Il sorbo, tipico della Macchia Mediterranea, con i suoi frutti è una pianta antichissima: le prime notizie risalgono al 400 a.C. in Grecia; i Romani lo fecero conoscere al resto dell’Europa.

Virgilio, nelle Georgiche (III, 380), narrando di popolazioni che vivevano nell’Europa dell’Est, a nord del Mar Nero, racconta che, dopo le cacce al cervo nella neve, si riunivano in grotte dove accendevano grandi fuochi e bevevano una miscela di orzo fermentato e acide sorbe. L’etimologia del latino sorbus è incerta: secondo alcuni deriverebbe dal verbo sorbeo, ossia bere, assorbire, in quanto i frutti del sorbo arrestano i flussi dell’intestino. Dioscoride e Galeno erano concordi su quest’uso terapeutico.

Tuttavia, pare assai più verosimile un’etimologia indoeuropea, da sor-bho cioè rosso, corrispondente al colore dei frutti. Con il termine sorbo si indicano alcune specie vegetali appartenenti alle Rosacee (Dicotiledoni), che si presentano come piccoli alberelli o grossi cespugli. Producono fiori regolari, a cinque petali liberi, generalmente biancastri, e maturano piccoli frutti globosi o oblunghi, giallastri o rossi.

Molto noto nella regione mediterranea è il Sorbo domestico (Sorbus domestica o Pirus domestica), già conosciuto nei secoli passati, con foglie imparipennate e foglioline seghettate al margine. Esso produce frutti, le sorbe, che sono raggruppati e penduli; ora essi assomigliano a piccole pere, ora a minuscole mele di color giallo-verdastro, e vengono raccolti ancora acerbi in autunno, per essere conservati sulla paglia fino a completa maturazione, o meglio, all’ammezzimento.

In tali condizioni, la loro polpa brunastra assume un sapore acidulo e aromatico, gradevole. I pomi diventano scuri, morbidi e saporiti per una trasformazione enzimatica. Il frutto maturo ha un contenuto di zuccheri di circa il 20% e viene consumato al naturale o utilizzato per la preparazione di marmellate. I frutti del sorbo domestico erano più diffusi nei secoli passati; negli ultimi decenni, il consumo e la diffusione dei frutti sono andati via via in diminuzione.

Oggi sono considerati una rarità e vengono catalogati nei frutti dimenticati o frutti minori. Vi sono diverse varietà: la sorba agostina, o suovero agostegno, che matura in fine agosto; la sorba autunnale, o suovero a panella, di color giallo e rosso, molto grande, matura a settembre; la sorba capitana, che matura in dicembre; la sorba pera tortona che matura in inverno; la sorba varrecchiare matura da dicembre a febbraio; le sorbe antignane, dal colore rosso-verde, maturano in dicembre e si presentano in bei grappoli o schiocche.

Vi sono ancora le sorbe nataline e le pascarole, ma si deve considerare che in luoghi diversi la stessa varietà è chiamata con nomi differenti. Le sorbe capitane e le antignane sono le più pregiate in quanto a pezzatura e a sapore. “O mazzo o ‘a ceppa ‘e sovere” si tiene appeso sul terrazzino e si spizzicano i frutti squisiti, man mano che diventano maturi. Nelle leggende europee il sorbo è una pianta che protegge chi ne possiede un esemplare, scacciando in questo modo gli spiriti maligni. “Sorbole” (cioè sorbe) è anche una tipica esclamazione dialettale bolognese, che sta ad indicare stupore, meraviglia, sorpresa.

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Annamaria Parlato 30/08/2022

Casta e pudica, la Santa Rosa è nata in un convento ma poi si è evoluta

Tra Amalfi e Positano, mmiez'e sciure
nce steva nu convent'e clausura.
Madre Clotilde, suora cuciniera
pregava d'a matina fin'a sera;
ma quanno propio lle veneva 'a voglia
priparava doie strat'e pasta sfoglia.
Uno'o metteva ncoppa, e l'ato a sotta,
e po' lle mbuttunava c'a ricotta,
cu ll'ove, c'a vaniglia e ch'e scurzette.
Eh, tutta chesta robba nce mettette!
Stu dolce era na' cosa favolosa:
o mettetteno nomme santarosa,
e'o vennettene a tutte 'e cuntadine
ca zappavan 'a terra llà vicine.
A gente ne parlava, e chiane chiane
giungett'e' recchie d'e napulitane.
Pintauro, ca faceva 'o cantiniere,
p'ammore sujo fernette pasticciere.
A Toledo nascette 'a sfogliatella:
senz’amarena era chiù bona e bella!
'E sfogliatelle frolle, o chelle ricce
da Attanasio, Pintauro o Caflisce,
addò t'e magne, fanno arrecrià.
So' sempe na delizia, na bontà!

Quando si parla di sfogliatella Santa Rosa, l’immaginazione è forte e subito balzano alla mente scene di monache dai lunghi abiti candidi, con i copricapi neri, che gioiose e rubiconde preparano dolci in segreto nell’antica cucina settecentesca del monastero sospeso sul mare, in quel di Conca dei Marini in Costiera Amalfitana, patrimonio Unesco, un luogo magico dove il tempo sembra essersi fermato.

Leggende e aneddoti vari si mescolano ai pochi documenti d’archivio esistenti e ai testi di storici locali, tanto da creare attorno alla fama di questo dolce un’aura di mistero. Il dolce comunque si sa che nacque per sbaglio, grazie alla genialità di una suora addetta alla cucina, che per evitare gli sprechi di cibo, mentre impastava del pane, decise di dar vita con gli avanzi di quest’ultimo ad una sfoglia ripiena delle cose che il monastero produceva: frutta, liquori, strutto.

Adagiò quindi sulla “pettola”, rimpastata con sugna e vino bianco, della frutta secca rigenerata in liquore agli agrumi, probabilmente limoni, della semola cotta nel latte e zucchero. Ricoprì il tutto con una seconda “pettola” e richiuse, dando la tipica forma a cappuccio, triangolare ma con l’estremità più allungata. Il dolce infatti è conosciuto anche con l’appellativo di “monachina”. Alla madre superiora piacque tanto e ordinò subito che venissero prodotte in grande quantità e vendute ai contadini attraverso una ruota, come forma di sostentamento per il convento, in cambio di alcune monete.

La Santa Rosa ebbe subito una larga diffusione fino a quando, nel XIX secolo, il napoletano Pasquale Pintauro riuscì a procurarsi la ricetta segreta grazie ad una monaca, forse sua zia, portandola nella sua osteria a Via Toledo, che trasformò in secondo momento in laboratorio-pasticceria. Cambiando leggermente la forma e gli ingredienti, fece nascere la sfogliatella sia nella variante riccia che frolla, con un ripieno di semola, ricotta, canditi, latte, uova e zucchero.

Oggi la Santa Rosa si presenta nella sua veste contemporanea, ma tradizionale, attraverso un croccante involucro di sfoglie sovrapposte a strati fittissimi e un ripieno di ricotta, semolino, canditi, uova, aromi, spezie e all’esterno una corona di crema pasticciera con amarene intere e zucchero a velo.

Il convento o conservatorio domenicano di Santa Rosa de Lima fu edificato nella seconda metà del XVII secolo (1681). Ristrutturato secondo criteri conservativi e con rispetto filologico, dal 2012 è un Boutique Hotel di lusso con Spa e ristorante annesso, alla cui guida c’è lo chef stellato Alfonso Crescenzo. Fu costruito ad opera di Sorella Rosa Pandolfi, della nobile famiglia Pontone della Scala, che si stabilì a Conca e a cui fu regalata la Chiesa di Santa Maria di Grado, che essendo quasi in rovina fu ampliata attraverso la realizzazione di un monastero, per ospitare le altre consorelle.

In questa chiesa si conserva una preziosissima reliquia detta “Capo di San Barnaba”, una delle più importanti in Costiera. Nel corso degli anni le suore sostennero la popolazione locale attraverso la realizzazione di un acquedotto per portare l’acqua corrente in Piazza Olmo. Misero a disposizione anche le loro conoscenze farmaceutiche per la preparazione di medicinali utili a combattere le malattie più comuni. Poi, con le leggi di soppressione degli ordini monastici, nel 1866 la casa religiosa fu destinata a scomparire e le ultime suore restarono lì fino alla loro morte.

Venne in seguito acquistato da un imprenditore romano e trasformato in albergo nel 1924. Infine, dopo la morte di PierLuigi Caterina, ultimo proprietario, l’immobile è stato rilevato dall’ereditiera statunitense Bianca Sharma, che lo ha recuperato con enorme sensibilità, conservando la sua forte identità storica.

Questa sfogliatella si presentava anticamente con un delicato e friabile involucro di pasta frolla lavorata con lo strutto, molto in voga nel XVIII secolo per racchiudere anche pietanze salate, ed ospitava al suo interno della ricotta vaccina dei Monti Lattari, semola, cannella, scorzette di arancia candita o frutta proveniente dall'orto delle monache e rosolio ottenuto dall’infusione di limone, arancia e una parte di liquore.

Un pasticcere napoletano in epoca più moderna pensò bene di utilizzare lo stesso “scheletro” della sfogliatella Santa Rosa, ma variandone la forma e il ripieno. Oggi, nelle pasticcerie salernitane e non solo, è possibile trovare anche la coda d’aragosta o apollino, il cui ripieno è costituito da panna, crema chantilly o crema al cioccolato. Il cavaliere Romolo Mazza fu pioniere a Salerno nella produzione di code d’aragosta, che sono poi diventate fiore all’occhiello della pasticceria gestita attualmente da sua moglie e dai suoi figli.

La Santa Rosa può essere abbinata per quanto riguarda il beverage a un passito di Primitivo o di Falanghina per gli amanti dei vini. Invece, per una scelta più trendy potrebbe sposarsi alla perfezione l’accostamento di una birra artigianale fruttata come una lambic alla frutta, una stout, una Witbier, una Porter, una Weizen, una Ale invernale o speziata.

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Redazione Irno24 20/01/2021

Coldiretti, bene stop falsa mozzarella: "tarocco" vale 100 miliardi

Con l’emergenza Covid e la frenata del commercio internazionale sale il rischio di falsi Made in Italy sulle tavole straniere che hanno raggiunto l’astronomica cifra di 100 miliardi di euro, sottraendo risorse e opportunità di lavoro all’Italia. E' quanto stima la Coldiretti nell'esprimere apprezzamento per lo stop alla falsa mozzarella di bufala dop catalana.

Nel mondo – ricorda Coldiretti – più due prodotti agroalimentari Made in Italy su tre sono falsi senza alcun legame produttivo ed occupazionale con il nostro Paese. A taroccare il cibo italiano sono soprattutto i paesi emergenti o i più ricchi, con i formaggi che si classificano tra gli alumenti più colpiti.

Molti dei formaggi di tipo italiano sono “tarocchi” nonostante il nome richiami esplicitamente le specialità casearie più note del Belpaese, dalla Mozzarella alla Ricotta, dal Provolone all’Asiago, dal Romano al Parmigiano, fino al Gorgonzola. Fra le brutte copie dei prodotti caseari nazionali in cima alla classifica c’è proprio la mozzarella di bufala campana, seguita dal Parmesan, dal provolone, dalla ricotta e dal Romano realizzato però senza latte di pecora.

La pretesa di chiamare con lo stesso nome prodotti profondamente diversi – conclude Coldiretti – è inaccettabile e rappresenta un inganno per i consumatori ed una concorrenza sleale nei confronti degli imprenditori.

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