Siano, edizione numero 45 per la Sagra della Braciola di Capra
Si svolgerà dal 9 al 12 agosto in piazza Borsellino, ogni sera uno spettacolo musicale
Redazione Irno24 07/08/2024 0
"L’innovazione e l’intuizione fioriscono quando le menti si uniscono, collaborano, trovano una condivisione aperta al bene comune"; con questa frase, gli organizzatori danno il via alla 45esima edizione della Sagra della Braciola di Capra, in programma a Siano in piazza Borsellino. L'evento, che va avanti dal 1979, si svolgerà dal 9 al 12 agosto. Nel 2005, la Braciola di Capra è stata riconosciuta quale prodotto tipico locale della Regione Campania.
Ognuna delle serate sarà scandita da eventi canori e di intrattenimento: venerdì 9, ore 21:00, "Le Iene live band"; sabato 10, ore 21:00, "ARB live music"; domenica 11, ore 21:00, "Simone Carotenuto e i Tammorrari del Vesuvio" in Concerto; lunedì 12, ore 21:00, "Voci e Suoni del Sud" con Enzo Tammurriello, a seguire il grandioso spettacolo piromusicale della Salvati Fireworks.
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Annamaria Parlato 27/12/2019
A Curteri il pollo è "scucchiato"
Pelle croccante sino a scoppiare, carni succulente nel classico ruoto basso e un mix di spezie ed erbe mediterranee dalle dosi tenute segrete completano la ricetta con l’immancabile contorno di patate cotte nel forno a legna. Signore e Signori, questo in sintesi il "pollo scucchiato", un piatto campagnolo e caratteristico di Mercato San Severino, inventato negli anni Novanta dal cuoco Michele Verdastro nel suo locale ("La Terrazza") ubicato nella frazione di Curteri.
"Il segreto per cucinare un buon pollo scucchiato è il calore del forno", afferma lo chef. Le alte temperature del forno, infatti, operano sui pori della carne del pollo, che si restringono ottenendo due effetti benefici per la portata: la pelle diventa croccante, conferendo un ottimo sapore; la carne del pollo scucchiato, grazie all’effetto protettivo della pelle, cuoce conservando la sua naturale idratazione senza seccarsi, come spesso accade nel girarrosto. Quindi è nella cottura che si riassume il segreto della bontà del pollo scucchiato.
Nel salernitano oggi è questa la maniera più gettonata e amata dalla gente per assaporare il pollo, un "must" che viene copiato e riproposto un po' ovunque in molteplici varianti. La tradizione contadina e campagnola è strettamente collegata a questo piatto di carne. Quando nelle case si cuocevano pani e pizze nei forni a legna, i contadini erano soliti preparare anche alcuni capponi suddivisi in piccoli pezzi e disposti in tegami, conditi con abbondante strutto, erbe ed aromi vari.
Le elevate temperature del forno durante la cottura dei capponi determinavano lo scoppiettìo delle tenere carni e proprio da ciò è nata la denominazione di questo piatto semplice, ma sempre apprezzato. Alle consuete preparazioni "diavola", "cacciatora" e limone se ne aggiunge una quarta, che caratterizza il territorio e la cucina, stuzzica il palato e crea dipendenza: quella con porcini e provola filante. Da mangiare rigorosamente con le mani, pulendo bene le ossicina e leccandosi le dita: evviva il pollo!
foto tratta da restaurantlaterrazza.it
Annamaria Parlato 27/09/2020
Settembre è il mese della coricoltura anche in provincia di Salerno
Il nocciòlo (appartenente alla famiglia delle Betulaceae, genere Corylus) è una pianta originaria dell’Asia Minore, in Italia è diffusa in tutte le regioni e cresce bene fino a 1.300 metri di altitudine. L’Italia è tra i principali produttori di nocciole a livello mondiale. Le nocciole italiane più pregiate sono: la Tonda Gentile Trilobata (tipica delle Langhe piemontesi), la Tonda di Giffoni, la Tonda Gentile Romana, la Mortarella e la Tonda Tardiva.
Nel Parco Regionale dei Monti Picentini si produce una varietà di nocciola particolarmente apprezzata nel nostro Paese e nel mondo per aroma e forma. Trattasi delle “Tonda di Giffoni IGP”, una produzione pregiata e antica della provincia di Salerno. Nell’area a nord della Piana del Sele, a ridosso dei Monti Picentini, i terreni sono sovente terrazzati e messi a uliveto, castagneto o noccioleto. Se si raggiunge l’abitato di Giffoni Valle Piana, e da qui ci si inoltra verso la montagna, si noterà che i noccioleti prendono il sopravvento. Questa nocciola si caratterizza innanzitutto per avere una forma tonda, perfetta e regolare. La polpa è bianca e consistente, dal sapore deciso e aromatico e con la pellicola interna facilmente staccabile. Queste caratteristiche agevolano la tostatura, la pelatura e gli altri passaggi della lavorazione.
E’ la più richiesta da chef e pasticcieri per la preparazione di farina, pasta, piatti salati e dolci di vario genere. Questa nocciola inoltre può essere consumata anche come snack al naturale e paradossalmente è stata proprio questa modalità di consumo ad aver risvegliato l’interesse intorno al prodotto. Un alimento tipico a base di nocciola è senza ombra di dubbio il torrone o “croccanta” in dialetto, vera e propria leccornia, facilmente conservabile ed esportabile. La nocciola di Giffoni ha un elevato valore nutritivo e un alto contenuto in acido oleico, che può limitare il tasso di colesterolo nel sangue. L’areale di produzione si estende tra 12 comuni da Acerno a San Mango Piemonte: Acerno, Calvanico, Castiglione del Genovesi, Giffoni Valle Piana, Giffoni Sei Casali, Montecorvino Rovella, Olevano sul Tusciano, San Cipriano Picentino, S. Mango Piemonte, Montecorvino Pugliano, Fisciano, Baronissi. La raccolta si svolge a Settembre, ma a seconda dell’annata può iniziare anche nella terza decade di Agosto. Le nocciole raccolte vengono subito essiccate e depositate in luoghi freschi e ben areati.
Sono molti i riferimenti nella letteratura latina circa la coltivazione delle nocciole a partire dal III secolo a.C., e nei reperti archeologici, come i resti carbonizzati oggi conservati presso il Museo Archeologico di Napoli. Addirittura nelle tele di numerosi pittori compaiono le nocciole, tra questi il ferrarese Carlo Crivelli: nel dipinto di “Madonna con Bambino” del 1450, conservato all’Accademia Carrara di Bergamo, si notano in alto a destra, tra il bordo della pala d’altare e la pesca. Lo stesso Crivelli le dipinge anche in un bellissimo festone nel “Cristo morto tra la Madonna, San Giovanni e Maria Maddalena”, esposto al Boston Museum of Fine Arts.
La nocciola proveniente dall’area di Giffoni era rinomata già durante il Medioevo, ma fu nel XVII secolo e nel periodo borbonico che i commerci, col resto d’Italia e con l’estero, conobbero un vero sviluppo. A partire dal III secolo a.C. numerosi scrittori e poeti latini, da Catone a Virgilio a Plinio, ne attestano la presenza in terra campana e negli scavi di Ercolano esiste un affresco parietale, a tinte vivaci, dove sono raffigurate nocciole. Significative testimonianze si rinvengono anche in diversi reperti archeologici, quali ad esempio alcuni resti carbonizzati di nocciole, esposti al Museo Nazionale di Napoli.
Bisogna però attendere il Medioevo per avere notizie certe sulla nocciolicoltura specializzata in Campania ed in particolare sulla coltivazione della Nocciola di Giffoni. Fino alla metà del secolo scorso, dal porto di Napoli venivano esportate nocciole in Francia ed in Olanda, e tale era l’importanza di questo prodotto, nell’antico Regno napoletano, che dalla fine del Seicento esistevano uffici speciali per la misurazione dei frutti secchi. Attraverso i rapporti commerciali con il resto d’Italia e con l’estero, nell’epoca borbonica, si venne così a conoscere il valore distintivo della qualità della Nocciola di Giffoni. Verso la fine del Settecento, Vincenzo De Caro, storico salernitano, riferendosi alla sua terra d’origine, il giffonese, scriveva: “L’albero della nocella è a tutti noto che alligna meravigliosamente nella maggior parte del nostro demanio” (fonte goldilibero.com/nocciola/service/la-storia/).
Il consorzio di Tutela Nocciola di Giffoni IGP è stato costituito in data 13/09/2010 ed è stato riconosciuto dal MIPAAF con D.M. n. 10300 del 31/05/2011. Ne fanno parte i produttori agricoli soci della Cooperativa Tonda Giffoni e 2 aziende confezionatrici. La Coldiretti Salerno ha elaborato i dati sul raccolto che riguardano la nocciola Tonda di Giffoni: la produzione 2020 dovrebbe attestarsi su un quantitativo più elevato rispetto a quello del 2019, con un raccolto la cui entità dovrebbe superare i 70mila quintali in tutta l'area di produzione della tonda di Giffoni. Si registra un aumento per ettaro del 150% di prodotto in più rispetto allo scorso anno. Oltre alla quantità, quest'anno, danno soddisfazione anche gli indicatori relativi alla qualità, alla pezzatura e all'appetibilità del prodotto sul mercato (fonte PG FB Coldiretti Salerno).
Buone notizie anche per i consumatori: il prezzo, proprio per l'elevata produzione, scende di 100 euro a quintale. Il Patto di Filiera promosso dai rappresentanti del Consiglio di Amministrazione del Consorzio ha altresì stabilito una serie di adempimenti che consentiranno ai corilicoltori di ottenere una remunerazione delle nocciole a prezzi uguali o superiori ai minimi stabiliti dal patto di filiera stesso e ai confezionatori di ottenere uno sconto pari al 90% del costo del codice numerico, rilasciato dal Consorzio, da apporre sulle confezioni poste in commercio. Nella campagna 2018/19, il prezzo minimo di acquisto è stato pari a 6,2 euro punto resa. Nella campagna 2019/2020 è stato pari ad 8 euro punto resa.
PLUMCAKE ALLA NOCCIOLA
Ingredienti: 300 gr farina 00 200 gr zucchero 3 uova intere 1 vasetto yogurt alla nocciola (bianco addizionato a pasta di nocciole) 1 vasetto mix olio di semi girasole e olio di nocciole (50% e 50%) vanillina 1 bustina lievito per dolci latte.
Preparazione: Lavorare le uova con lo zucchero, aggiungere un pò alla volta la farina, lo yogurt, il mix di olio e la vanillina. Infine unire il lievito sciolta in 2-3 dita di latte. In uno stampo a cassetta oleato e infarinato leggermente adagiare il composto ben lavorato e cuocere per 40 minuti il dolce in modalità ventilata a 180 gradi. Decorare il plumcake con abbondante zucchero a velo e a piacere granella di nocciole o frutta fresca.
Annamaria Parlato 23/01/2022
Quando il riso abbondava sulla tavola dei salernitani
E’ probabile che nel Medioevo il riso sia stato veramente coltivato in minime quantità nel Sud Italia, nei conventi o negli Orti dei Semplici come pianta medicinale. Si può pensare che dalla Scuola Medica Salernitana e dal monastero di Monte Cassino questa pianta abbia iniziato la sua migrazione fermandosi in Toscana, dove si hanno notizie di una coltivazione di riso nei dintorni di Pisa verso la metà del '400, mantenutasi fino alla metà di questo secolo con una varietà assai pregiata dal nome “riso di Massarosa”.
In realtà, però, a eccezione degli scambi commerciali, non si può ancora parlare di un riso italiano. Tant’è che nel 1371 un editto milanese lo classifica come “riso d’oltremare” oppure “riso di Spagna”. Il riso però ha storia e identità molto singolari, che si perdono nella notte dei tempi soprattutto nel Meridione d’Italia, anche se può risultare strano. La coltura del riso scomparve definitivamente nell’Ottocento a Salerno; oggi resta solo un lontano ricordo con una forte presenza nella gastronomia locale. La prova che Salerno sia stata città di risaie per tre secoli (XVI-XIX) è data anche dal fatto che esiste Via delle Terre Risaie, posta nella Zona Industriale della città.
La pianta del riso (Oryza sativa) si ritiene originaria dell’Asia orientale, dove era conosciuta e coltivata già in epoca preistorica. Tra il 600-700 d.C. gli Arabi la introdussero in Europa, o meglio in Spagna, e da lì iniziò a diffondersi nel Vecchio Continente. Per secoli i mercanti importarono il riso, senza riuscire a coltivarlo in modo significativo. La prima coltura vera e propria nelle piane acquitrinose nei pressi di Paestum si attribuisce agli Aragonesi ed in particolare ad Alfonso d’Aragona, dopo la conquista del regno di Napoli. Alcuni soldati spagnoli infatti avrebbero dato vita a coltivazioni nelle paludi formate dalle esondazioni del fiume Sele.
Il filosofo Simone Porta (1495-1525), parla di primo insediamento del riso in Campania, presso Salerno. Nei secoli successivi la coltura arrivò a Crotone, a Torre Annunziata, presso il fiume Sarno sino a Castellammare di Stabia, in prossimità di Cosenza, accanto ai campi di cavoli e torzelle, e da qui l’usanza di mangiare ancora oggi riso e verze. Da Salerno alla Piana di Sibari un unico territorio ricchissimo di zone paludose in cui l’unione tra le acque, il suolo e il clima resero il riso di qualità eccellente, catturando l’attenzione di scrittori, poeti e cuochi. Nel 1500 entrò a far parte dei banchetti di corte.
Il poeta napoletano Giambattista del Tufo nella sua opera “Il Ritratto o modello delle grandezze, delizie e meraviglie della nobilissima città di Napoli”, declamava: “E d’estate e d’inverno farro e rise infinite da Salierno”. Il cuoco Bartolomeo Scappi descrisse la ricetta della minestra con brodo di pollo e riso, detto alla moda di Damasco: “Piglisi il riso Milanese o di Salerno che sono i migliori”. Anche Antonio Latini nel suo trattato di cucina del 1692, “Lo Scalco alla Moderna”, ribadiva: “Principato Citra. In questa provincia si ritrova ogni sorte di robba. Salerno produce li più famosi risi e in gran abbondanza”.
In seguito a Napoli e da lì anche in altri territori il riso conquistò il primato solo nelle mense dell’aristocrazia con l’arrivo dei “Monzù”, cuochi francesi chiamati a Napoli dalla Regina Maria Carolina in occasione delle sue nozze con Ferdinando IV di Borbone (1768). Con molta probabilità fu il sartù di riso ad essere servito ai nobili ospiti durante il banchetto nuziale ma si hanno ancora dei dubbi in merito. Nel Principato Citra il dolce tipico di Pasqua era la pastiera di riso, amata tutt’ora dai salernitani. Al popolino non piaceva molto perché ritenuto costoso rispetto ai maccheroni e stucchevole se bollito e privo di condimento.
Le risaie, se da un lato favorirono l’economia, dall’altro causarono enormi danni all’ambiente e alla qualità della vita. Lo stato di salute dei contadini che operavano nel Principato di Salerno fu messo a rischio a causa dell’aria insana, delle zanzare nelle paludi malsane e della malaria che mieteva vittime diffondendo febbri atroci. Nel 1820 le risaie delle piane di Salerno vennero bonificate, subendo un processo di trasformazione ambientale. Tutti gli stagni e le zone umide si tramutarono in orti irrigui, frutteti e giardini, cancellando ogni minima traccia del tempo che fu.
Oggi il riso è intensamente coltivato in Piemonte (Novara, Vercelli), Lombardia (Pavia, Milano, Mantova), Veneto (Verona, Rovigo), Emilia (Bologna, Ravenna). Il riso si semina di regola nei mesi primaverili (aprile-maggio) e si raccoglie in settembre-ottobre, al più ai primi di novembre, se si tratta di varietà a maturanza tardiva. La risaia è una porzione di terreno, leggermente inclinato per favorire l’indispensabile scolo dell’acqua di irrigazione. La circondano e la suddividono in aiuole o piavi, degli argini longitudinali e trasversali, in opportuni punti dai quali si aprono delle bocchette, attraverso cui viene data l’acqua.
Prima della semina questa superficie viene inondata ed uguagliata mediante una larga tavola di legno (spianone), trainata anticamente da cavalli. Quest’operazione ha pure la funzione di intorbidire l’acqua in modo che il limo in sospensione, depositandosi, copra il seme. A due o tre giorni dalla semina, il livello dell’acqua viene abbassato, in modo che questa, riscaldandosi più facilmente, favorisca il germogliare del riso. Successivamente, formatasi la pianticella, l’inondazione viene innalzata a poco a poco (20-30 cm al massimo).
Tra le cure necessarie durante la crescita del riso, importanti ed indispensabili sono la sua monda o mondatura dalle cattive erbe, la quale viene eseguita a mano da personale stagionale per lo più femminile (mondine): il terreno sommerso ed inzuppato facilita l’estirpazione delle piante con le loro radici e quindi la loro quasi totale distruzione. Migliori risultati si ottengono seminando in vivaio e trasportando poi le piantine di riso già formate nelle località ove s’intende procedere alla loro coltura. A maturità s’inizia il graduale abbassamento dell’acqua, fino a mettere la risaia a secco nel più breve tempo possibile; poi ha inizio la mietitura e successivamente la trebbiatura, dove si stacca il risone dalla spiga. Superate tutte queste fasi, il riso è pronto per giungere a tavola.