La storia del Carnevale in Campania, fra riti ed abbuffate

La data d’inizio in genere corrispondeva al 17 Gennaio, giorno della festa di Sant’Antonio Abate

Annamaria Parlato 27/02/2022 0

Chiacchiere, lasagna, migliaccio, Carnevale è alle porte e i profumi si mescolano nelle cucine delle case campane. Carnevale è sinonimo di licenziosità, di baldoria, di travestimenti e di abbondanza in tavola. La data d’inizio del Carnevale campano in genere corrispondeva al 17 gennaio, giorno della festa di Sant’Antonio Abate. Nell’opera “Ritratto o modello delle grandezze, delle letizie e meraviglie della nobilissima città di Napoli”, scritta dal marchese Giovan Battista del Tufo, si narrava delle usanze carnevalesche del XVI secolo e del fatto che il Carnevale fosse riservato all’alta aristocrazia napoletana, la quale, mascherata, partecipava ai lussuosi ricevimenti della Corte Aragonese.

Nel XVII secolo, le mascherate incominciarono a diffondersi anche tra il popolino, che scendeva tra i vicoli e nelle piazze intonando i canti carnascialeschi, facendo baldoria e partecipando a festini orgiastici. Il Carnevale napoletano quindi ebbe diverse sfaccettature, ne esistevano diversi tipi, tra cui quello aristocratico, plebeo e religioso. Nel regno dei Borboni, il Carnevale conobbe un momento di gloria; famosi erano i carri allegorici arricchiti con squisite vettovaglie, causa di violenti saccheggi.

Durante i secoli XVII e XVIII era in voga “l’albero della Cuccagna o palo di sapone”, un gioco che consisteva nell’arrampicarsi sino alla cima di un’asta insaponata, dove vi erano appesi: vini, salumi, formaggi, dolci, porchette, capretti, uova. Nella gastronomia i piatti in voga a partire dal XVIII secolo furono: lasagne alla napoletana, migliaccio, dolci fritti e sanguinaccio. La lasagna napoletana si distingue da quella emiliana per la presenza della ricotta al posto della besciamella nell’interno. Nel ripieno poi sono presenti le salsicce, il fiordilatte, le polpettine e, a piacere, uovo sodo o piselli.

A Montoro, in provincia di Avellino il maiale e i suoi derivati sono i protagonisti a tavola: 'a lasagna cu 'e ppurpette e a carne e puorco cu 'e ppupacchielle e la pastiera di maccheroni al forno, realizzata con le "candele" condite con soppressata, pecorino, sugna, ricotta e provola. Ma è usanza il giorno di Carnevale consumare anche la pizza "ionna" di mais accompagnata dal mallone a base di rape e patate o di verdura "sciatizza", o il pittone solofrano sempre di mais con cicoli e broccoli.

Il migliaccio nasceva invece come una sorta di torta “vampiresca”, con sangue di maiale e miglio brillato. Poi nei monasteri femminili si cercò di eliminare la barbara usanza e al posto del sangue vi fu l’introduzione della semola e dei fiori d’arancio. Il migliaccio è una squisito dolce di carnevale, oggi realizzato con ricotta, essenze di agrumi (limone-arancia), semola, vaniglia e uova.

Matilde Serao, nella sua opera "Paese di Cuccagna", descrisse minuziosamente il sanguinaccio (realizzato con sangue di maiale), sia rustico sia dolce. Quello rustico si vendeva per strada, racchiuso nel suo budello, e quello dolce si univa al cioccolato, ai pistacchi, al latte, alla frutta candita ed ai pezzetti di pan di spagna. Dal 1992 per legge è stato abolito l’uso del sangue di maiale nella preparazione di questo piatto regionale, per motivi di igiene. Si è soliti oggi consumarlo in monoporzioni, assieme alle chiacchiere o alle castagnole, essendo diventato ormai una vera e propria crema di cioccolato, densa e ricca di aromi.

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Annamaria Parlato 21/08/2025

Fichi d'India, dal Messico al salernitano per trovare un habitat ideale

Introdotti in Europa dopo la scoperta dell’America e giunti in Italia nel XVII secolo grazie alla dominazione spagnola, i fichi d’India hanno trovato nel Sud e nella provincia di Salerno un habitat ideale, trasformandosi da pianta esotica a simbolo mediterraneo. Le prime coltivazioni si diffusero nelle Canarie e in Sicilia, sfruttando la loro capacità di resistere ad aridità e terreni scoscesi, da lì raggiunsero il resto del Mezzogiorno. Nel corso dei secoli furono utilizzati non solo come frutto ma anche come risorsa multifunzionale: nel XIX secolo le pale, private delle spine, venivano usate come foraggio, mentre il succo trovava impiego nella medicina popolare e oggi è base di cosmetici per le sue proprietà nutrienti e antiossidanti.

Nella provincia di Salerno il fico d’India è entrato a far parte del paesaggio: dai terrazzamenti delle zone costiere alle colline, le piante costellano campi e sentieri, a testimonianza di un radicamento secolare. Le varietà più comuni sono tre: il bianco o scetun, meno zuccherino e rinfrescante; il giallo o sulfarin, dolce e diffuso; e il rosso o sanguigna, aromatico e pregiato. Dal punto di vista nutrizionale, i fichi d’India rappresentano un concentrato di benessere: ricchi di vitamina C, potassio, magnesio e calcio, forniscono fibre che favoriscono la digestione e regolano il colesterolo, contengono polifenoli e betacarotene ad azione antiossidante e i semi custodiscono acidi grassi essenziali utili per la salute della pelle e del cuore.

Il ciclo stagionale del fico d’India ne amplifica il fascino: i frutti maturano generalmente tra agosto e settembre, mentre grazie alla tecnica della scozzolatura – che consiste nel taglio dei primi fiori – la pianta produce i cosiddetti bastardoni, frutti più grandi e succosi che arrivano a maturazione tra ottobre e novembre, rendendo possibile gustarli fino all’inizio dell’inverno. Per prolungarne la disponibilità, soprattutto in passato nelle campagne cilentane e salernitane, si ricorreva all’essiccazione: i frutti maturi venivano sbucciati, tagliati a metà e disposti su graticci al sole, protetti da teli sottili e rigirati ogni giorno fino a quando non perdevano gran parte dell’umidità. Così, in pochi giorni, si ottenevano dolci concentrati di energia da conservare per l’inverno, talvolta aromatizzati con foglie di alloro o scorze di agrumi. Oggi questo processo può essere replicato anche con essiccatori domestici o con una lenta cottura al forno a bassa temperatura.

In cucina offrono una sorprendente versatilità: sono protagonisti di confetture, granite, gelati, crostate e liquori artigianali, ma trovano impieghi anche in preparazioni salate, come insalate con rucola e formaggi erborinati, piatti di selvaggina e carni bianche, oppure salse agrodolci per accompagnare tonno e sgombro. La loro pulizia richiede attenzione: le spine sottili e invisibili impongono l’uso di guanti spessi o la tecnica di forchetta e coltello per incidere la buccia senza contatto diretto, mentre l’ammollo in acqua è un rimedio pratico per ridurre il rischio di punture.

Negli ultimi anni, oltre alla tradizione gastronomica, il fico d’India si è imposto come risorsa strategica per la sostenibilità. I cladodi, ossia le pale, possono immagazzinare fino al 90% di acqua e garantire tra 5 e 6 tonnellate di biomassa secca per ettaro in condizioni di scarsità idrica, arrivando fino a 40 tonnellate e a 20 tonnellate di frutti per ettaro in ambienti più favorevoli. Le pale potate, considerate un tempo scarti, si rivelano oggi preziose per i loro composti: mucillagini, fibre e fenoli trovano applicazioni nell’industria alimentare e nutraceutica come addensanti, pectina, collodi e antiossidanti.

Dalla bioedilizia alla produzione di pellicole biodegradabili, fino all’impiego come coltura energetica, il fico d’India si propone come alleato della transizione ecologica. Così, da frutto esotico originario del Messico a compagno silenzioso dei paesaggi salernitani, il fico d’India continua a intrecciare storia e futuro: simbolo di resistenza e adattamento, fonte di nutrimento e salute, protagonista di tavole mediterranee e, oggi, risorsa innovativa per una nuova idea di sostenibilità.

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Annamaria Parlato 26/02/2024

Salerno, le pizze da Màdia non si... conservano ma si sfornano per i buongustai

Son passati sette anni da quando il costruttore Salvatore Iannuzzi ha inaugurato Màdia all’Irno Center di Salerno. Sette anni fruttuosi di recensioni positive e riconoscimenti nelle migliori guide di settore (tre spicchi Gambero Rosso), in cui inizialmente pizzeria e cucina camminavano di pari passo con le proposte in carta dello chef Domenico Vicinanza, poi solo con la pizzeria capitanata dal primo giorno dal talentuoso pizzaiolo di origini vesuviane, Francesco Miranda.

La gestione è oggi nelle mani di suo figlio, Fabrizio Iannuzzi, coadiuvato da un assortito team di collaboratori, sia in sala che al forno delle pizze, coordinato da Miranda. Il termine màdia ovviamente richiama il mobile da cucina tradizionale, spesso in legno, utilizzato per conservare alimenti, utensili e altri oggetti. La màdia poteva avere ante e cassetti ed era spesso posizionata nella zona della cucina, utilizzata anticamente dalle nonne per deporvi anche pane, farina o per avere una superficie di lavoro che poteva essere sfruttata come piano aggiuntivo per la preparazione dei cibi.

Quindi anche il significato che ne deriva è identificato della filosofia della pizzeria, che vuole elargire ai propri clienti un prodotto autentico, genuino, rustico e goloso, una pizza che parla molte lingue e dialetti e che ha ìnsiti profumi e ricordi del passato. L’ambiente, sviluppato su due piani, con le sedute interne che in estate vengono proiettate anche verso il dehors esterno, è confortevole, i materiali in legno lo rendono caldo e amichevole; in alto, sul soffitto, campeggia al centro una gigantesca spiga di grano, un importante segno di riconoscimento per indicare ciò a cui si vuole dare maggiore importanza: farina, grani e impasto.

Ovviamente l’impasto parte dal prefermento, tecnicamente chiamato “biga”, che viene posto in apposite celle per almeno 48h. La biga dona digeribilità, gusto e profumi, che ricordano il pane appena sfornato, quello di una volta, lavorato dalle massaie nelle case di campagna. Per altri impasti viene utilizzato il lievito madre, creato dalle bucce di mela annurca biologica che, quotidianamente, si idratano con acqua e farina. Questo tipo di lievito dona all'impasto note acidule, amplifica il profumo del grano e favorisce ulteriormente la digeribilità.

Miranda ha svelato: “Per il menù primaverile ci saranno delle sorprese. Ho ideato una serie di pizze al tegamino con farine e impasto 100% vegetali, usando addirittura l’acqua per idratarlo, recuperata dall’ortaggio stesso come carciofo e asparago. Per farcirle non mancheranno questi vegetali, uniti ad altri ingredienti che ne esalteranno al massimo il sapore. Non sembrerà di mangiare una pizza al carciofo ma il carciofo stesso. Le mie origini sono contadine e lo studio delle verdure nella loro essenza ha sempre preso il sopravvento su di me. E’ dal 2017 che mi sono concentrato sull’idea di introdurre l’orto in pizzeria e proseguirò su questa strada, che mi è sembrata vincente dal primo momento”.

Francesco nella sua màdia ha un impasto speciale per ogni giorno della settimana: dal lunedì alla domenica c’è l’impasto con farina di tipo 1, il giovedì e il venerdì l’integrale e dalla domenica al mercoledì i clienti possono assaggiare la pizza in pala, con impasto a base di semola Senatore Cappelli, farina integrale e farina di tipo 2. La pizza di Francesco ha un cornicione non troppo pronunciato, con buccia leggermente croccante, la base è sottile ma robusta abbastanza da sostenere i condimenti senza perdere la sua consistenza.

Consigliata tra le “pizze d’inverno 2024” è la “Cilento a colori”, sia per la cromìa utile ad allontanare il grigiore invernale sia per il il connubio di sapori sprigionato dagli ingredienti, di cui broccoli saltati con aglio, olio e peperoncino, bufala affumicata, salamino, cacioricotta di capra del Cilento, datterino giallo e olio al peperoncino. In abbinamento è consigliata una birra con gradazione alcoolica più elevata, come l’inglese Spitfire Strong Lager (9 gradi) a bassa fermentazione, nata per volere del birrificio Shepherd Neame, in ricordo dell’ottantesimo anniversario del primo volo dell’iconico cacciabomardiere Spitfire. Una pizza che richiama esattamente il concept di Màdia, valorizzando l’elemento vegetale a 360 gradi.

Da non perdere anche la “Come una sorrentina”, un omaggio al classico piatto di gnocchi dell'omonima Penisola, con impasto soffice alle patate cotto in tegamino a tre lievitazioni, datterino della piana del Sele emulsionato con parmigiano reggiano 24 mesi e fiordilatte bruciato a cannello. Per chiudere in bellezza, un dessert artigianale ci sta tutto e quindi da provare è il “Dolcino tiepido” con farina Senatore Cappelli, albicocca e semi di papavero al profumo di menta, servito su salsa inglese all’albicocca e pellecchiella del Vesuvio. Un dessert piacevole, non stucchevole, che lascia il palato pulito e incanta con la sua rusticità, una carezza avvolgente e raffinata, da intenditori.

In abbinamento è perfetto il rum jamaicano Appleton Estate 8 years old Reserve di color miele, dalla grande luminosità di preziosi riflessi bronzati, naso consistente di spezie e frutta secca con sentori di miele e legno, note di vaniglia e nocciola, scorza d'arancia e melassa. Con un ambiente accogliente, un personale attento e cibo eccezionale, questa pizzeria offre un'esperienza gastronomica che vale la pena provare per assaporare le cose buone come una volta.

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Annamaria Parlato 22/11/2024

Le novità al "Nobi" di Fisciano, De Martino nella piena maturità espressiva

Dopo due anni, si ritorna da Nobi per la seconda volta, soprattutto per scoprire le novità sia del comparto hospitality sia del fine dining. Il ristorante, ubicato in Contrada San Lorenzo a Fisciano, fortemente voluto dalla famiglia Di Leo per rendere omaggio alle eccellenze agricole prodotte nell’omonima azienda di Castel San Giorgio, fondata da Nobile Di Leo, è l’estensione della storica Masseria Nobile. Legumi, ortaggi vari (essenzialmente pomodori) caratterizzano la produzione in loco che poi viene trasformata a Castel San Giorgio, come il pomodoro San Marzano DOP, i datterini gialli Dolly e i marzanini. Alla guida di Nobi ci sono Ilaria Di Leo e Nicola Gregorio, mentre la cucina è affidata allo chef salernitano Michele De Martino.

Oltre ad essere un luogo di soggiorno, la masseria è in continua espansione, con progetti futuri che puntano a migliorare ulteriormente i servizi e gli spazi, mantenendo però sempre il legame con la tradizione e la natura che l’ha ispirata. La combinazione di ambienti eleganti, spazi all'aperto e cucina raffinata, ma accessibile, fa di questa masseria una destinazione perfetta per chi cerca un luogo dove il lusso incontra la semplicità, il comfort si fonde con l’arte, e ogni angolo racconta una storia di continua crescita e innovazione. Situata in una posizione strategica, lontano dal caos della città ma al tempo stesso facilmente accessibile, questa masseria è un vero angolo di paradiso, totalmente immersa nelle verdi colline della Valle dell’Irno, dominate da vaste distese di noccioleti.

All’esterno, la masseria è circondata da paesaggi naturali mozzafiato, con due piscine che invitano al relax. La zona della piscina è un punto di ritrovo ideale, non solo per nuotare ma anche per trascorrere momenti piacevoli con un aperitivo, un cocktail o un pranzo informale. Il punto ristoro esterno, grande novità del 2024, vicino alla piscina, è pensato per offrire una cucina più semplice e accessibile, ma non per questo meno gustosa. Qui, i piatti sono leggeri e ideali per una pausa durante una giornata di sole. Ingredienti freschi e locali si trasformano in insalate, panini ricercati, piatti veloci ma innovativi che permettono agli ospiti di gustare un’esperienza gastronomica senza la formalità di un ristorante tradizionale. Un menù che gioca sull’idea di semplicità, perfetto per accompagnare momenti di convivialità a bordo piscina.

“Spesso le persone associano Nobi agli eventi di banchettistica – spiega De Martino – e alla formula piscina+light lunch. Ma non si riduce a questo, noi siamo innanzitutto ristorante, voglio specificarlo. Poi, altra cosa importante, che voglio precisare, è che banchettistica e ristorazione sono due comparti completamente diversi. I miei colleghi abituati a lavorare per i grandi eventi hanno una forma mentis diversa da chi è abituato a fare cucina. Io invece cerco di fondere le due cose e quando allestisco un buffet porto la mia idea di piatti e ristorazione in un finger o in una portata da banchetto, metto la stessa intensità, lo stesso concetto”.

Altra novità il menù, che diventa ancora più intrigante, sfidando i confini della cucina territoriale, con un occhio di riguardo per coloro che sono affezionati ai sapori classici, quelli che evocano comfort, memoria e tradizione. Questo menù non rinuncia all'innovazione e alle tecniche contemporanee, le mescola con il rispetto per ciò che è familiare e rassicurante. Ogni piatto racconta una storia, quella di un incontro tra passato e presente, tra il conosciuto e il sorprendente, mantenendo sempre un legame profondo con la cucina tradizionale. La cucina di De Martino non è solo una rielaborazione intellettuale, ma un'esperienza ideata per emozionare e soddisfare ogni palato. Con una passione innata per la cucina, lo chef ha perfezionato l'arte di mescolare la tradizione gastronomica con un tocco di modernità, senza mai perdere di vista l'autenticità.

Michele è custode della tradizione, delle ricette del centro storico di Salerno, la sua amata città natale, che hanno segnato la cultura gastronomica della sua terra. Conosce a fondo i piatti storici, quelle preparazioni che raccontano il vissuto delle persone, dei luoghi e dei sapori che hanno attraversato generazioni. Ogni ingrediente che seleziona è scelto con cura e proviene dai fornitori locali, per garantire la freschezza e la qualità della materia prima. La sua cucina è un omaggio a ciò che è genuino e naturale, con piatti che esaltano il vero sapore degli alimenti, senza troppi fronzoli. Ma allo stesso tempo, sa che l’innovazione è essenziale per restare al passo con i tempi. Le sue preparazioni non sono mai banali: un ingrediente tradizionale viene presentato in modo sorprendente, una tecnica moderna viene usata per esaltare i sapori senza modificarli. È un maestro nel reinterpretare i classici, rendendoli freschi, dinamici e visivamente spettacolari, pur rimanendo fedele alla loro essenza.

“Il mio obiettivo finale non è solo quello di preparare cibo - prosegue De Martino - ma di creare emozioni attraverso ogni piatto. Sono in grado di percepire le esigenze della clientela, adattando le mie creazioni alle preferenze individuali, senza mai compromettere la qualità. Per me, la cucina è un atto di cura, un modo per comunicare passione e dedizione attraverso ogni ingrediente, ogni tecnica, ogni presentazione. Ho deciso di mettere da parte la frenesia del mondo dello spettacolo gastronomico per dedicarmi esclusivamente al mio menù, al perfezionamento dei piatti e alla cura dei dettagli. Non sono interessato a seguire le tendenze: per me, la vera soddisfazione è sapere che il mio menù racconti una storia autentica e che i clienti apprezzino sinceramente ciò che mangiano”.

La sua è una scelta di vita consapevole, che riflette il valore di lavorare con passione e senza le distrazioni dell'industria del food, ma concentrandosi solo su quello che importa di più: il piacere di cucinare per gli altri e la gratificazione di offrire piatti che parlano da soli. Infatti, i piatti del menù invernale 24/25 parlano e come: spettacolare è il “To... Il Foies Gras” un filetto di tonno scottato, patate alla maggiorana, fondo bruno di vitello leggermente speziato e foies gras di oca. La ricchezza del foies gras, la freschezza del tonno, la morbidezza della patata e la profondità del fondo bruno uniscono terre e mare in un'armonia di sapori complessa. La maggiorana aggiunge una nota erbacea che bilancia la complessità del piatto, rendendolo equilibrato.

Incantevole il cestino dei pani, abbinato all’olio extravergine di Marco Rizzo, dai lievi sentori di vegetale fresco che aprono ad un amaro gentile, cui segue un piccante breve e delicato, che adesso è diventato più corposo rispetto al passato con pani al lievito madre, farine rimacinate a pietra di grani antichi, focacce ai pomodorini confit, cialdine croccanti di riso e curcuma e piccolo babà rustico caldo alla maniera di un casatiello napoletano. Imperdibili gli antipasti uovo cotto a 62 gradi con amatriciana di seppia, spuma di pecorino e tartufo e il velo di calamaro con cime di rapa e chips di patate affumicate su salsa di provola.

Piatto giocoso e sorprendente la candela spezzata ripiena di genovese su fonduta di pecorino, salsa di cipolle e cipolla croccante di Montoro. Il piatto si caratterizza per l’armonia tra la dolcezza intensa della cipolla, la profondità del ragù di manzo e la sapidità cremosa della fonduta di pecorino. I sentori principali sono quelli di caramello, provenienti dalla cottura lenta delle cipolle, e umami dalla carne della genovese, che si amalgamano con il gusto leggermente piccante del pecorino. La pasta, con il suo ripieno succulento, agisce come un contenitore perfetto per trattenere questi sapori complessi, mentre la salsa di cipolla dona freschezza e leggera acidità, bilanciando il piatto. Il risultato finale è un piatto che gioca con il contrasto tra dolcezza e sapidità, dove la cremosità della fonduta e la morbidezza della genovese creano una sensazione di calore e soddisfazione, arricchita dalla profondità della cipolla e dalla persistenza del pecorino.

E il dessert? Le percezioni gustative bisogna scoprirle direttamente accomodandosi al tavolo di Nobi, non è giusto anticipare tutto, anche se un aiutino può starci: nocciola, gianduia, frolla al cacao, cioccolato bianco. Insomma, una goduria senza fine, un dessert che sa sorprendere, regalando al palato un'esperienza sensoriale che oscilla tra il comfort e la raffinatezza. Grande attesa anche per la cantina, attualmente in fase di allestimento con ulteriori novità per l’anno prossimo.

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