Montoro, stupisce ed emoziona la cucina di Chef Cerrato a Casa Federici
Il ristorante è ricavato da un’architettura settecentesca in cui i piatti sono piacevole scoperta
Annamaria Parlato 04/05/2024 0
Alla frazione Pandola di Montoro, sorge il ristorante Casa Federici, prendendo il nome proprio dall’omonima strada in cui sono ravvisabili le tracce di un antico passato di grande fascino. Casa Federici infatti è un’architettura settecentesca, un tipo di residenza rurale che era comune nel XVIII secolo, specialmente in Europa. Queste case, spesso chiamate anche "case di campagna" o "case padronali", erano generalmente abitate dai contadini o dai proprietari terrieri stessi.
Caratterizzate da uno stile architettonico semplice, ma funzionale, le case coloniali del Settecento solitamente presentavano pareti spesse in pietra o mattoni e una disposizione degli spazi interni concepita per adattarsi alle esigenze agricole della famiglia che vi risiedeva. All'interno, potevano includere una cucina con un grande focolare per preparare cibi e riscaldare la casa, una sala da pranzo, camere da letto e, in alcuni casi, anche una cantina per conservare le provviste. A Casa Federici sono identificabili ancora il pozzo funzionante, la corte esterna e gli archi, testimonianze significative e intrise di storia, messe in evidenza grazie al lavoro di restyling attento alla conservazione del plesso, secondo criteri di valorizzazione e funzionalità.
Lo chef Francesco Cerrato e sua moglie Marzia Longo hanno avuto la lungimiranza di far risplendere un bene architettonico, promuovendo il patrimonio locale e rendendolo fruibile grazie all’interessante cucina d’autore, che ha reso questo posto fiore all’occhiello per gli amanti della buona tavola. Le due spaziose sale interne sono accoglienti, caratterizzate da un design minimalista, basato sull'idea di riduzione agli elementi essenziali, eliminando ogni elemento superfluo. I colori sono neutri, come il bianco, il grigio, il nero e il beige. Questi colori contribuiscono a creare un'atmosfera calma e rilassante, senza distrazioni visive. Tutto è arricchito dall'uso di materiali di alta qualità, come il legno, il metallo e il vetro. Questi materiali conferiscono un senso di eleganza e raffinatezza agli spazi.
La cucina è molto creativa e innovativa, combina elementi provenienti da diverse culture e tradizioni gastronomiche. C’è molta territorialità, a partire dalla celebrazione della materia prima, che si mescola a tendenze più internazionali, sostenibilità e stagionalità. I menù dello chef Cerrato non stancano, sono giocosi, inusuali, divertenti per gli accostamenti inaspettati, le consistenze che non sono mai quel che sembrano, gli impiattamenti visivamente stimolanti. Inoltre, le sperimentazioni di Cerrato si spingono oltre lo scibile, lui cerca di raggiungere il famoso “quinto gusto o umami” attraverso salse, tostature, caramellizzazioni, brodi, riduzioni, affumicature. I suoi piatti conservano anche diverse note amare di fondo, che poi vengono stemperate e mitigate da ingredienti più dolci o acidi, particolari cotture o preparazioni.
Lo chef ha spiegato: “Circa quattro anni fa ho aperto il ristorante, in piena pandemia. Ho trascorso la mia gioventù sempre in cucina e ho avuto maestri eccezionali come Matteo Sangiovanni e Rocco Iannone. Dopo un po' di esperienze in rinomate cucine del territorio, ho deciso di coronare il mio sogno assieme a mia moglie, che è manager di sala. La clientela risponde bene e questo mi riempie di soddisfazione, perché a volte penso di spingermi oltre e di non essere in grado di far comprendere la mia cucina. Le persone sono curiose e sono disposte a provare le novità che le ultime tendenze propongono. Io, in ogni caso, cerco di essere spontaneo, perché questi sono i piatti che in primis piacciono a me e che desidero offrire ai clienti. Sono già diversi anni che siamo anche menzionati dalla Guida Michelin, il più importante podio di settore. Ho voglia di approfondire ulteriormente la materia prima e stupire con la massima semplicità chi vorrà assaggiare i miei piatti”.
Cerrato è abile sulle micro-lavorazioni, un cesellatore nato, e lo si percepisce dalla cura maniacale che pone sui finger di benvenuto e sulla piccola pasticceria. Capolavori di gusto sono il manzo, gambero e sedano rapa, il riso di pasta, carciofi e kefir, la pescatrice e bieta con il suo quinto quarto lavorato come il soffritto alla napoletana e racchiuso in un raviolo sempre di bietola, il predessert “finta oliva” al cioccolato bianco, capperi e limone, il dessert con gelato alla camomilla su crumble di riso, mousse di barbabietola, cremoso all’olio evo, gel di barbabietola e meringa. Quando un pasto coinvolge tutti i sensi, non solo il gusto, lascia un'impressione duratura e memorabile.
Per quanto riguarda il beverage, Marzia Longo ha aggiunto: “In genere si inizia da un tè kombucha, in cui vengono messe a fermentare le erbe e spezie tipiche del liquore concerto, originario di Tramonti. Serve a predisporre il palato alla degustazione. Dopodiché a questi piatti si può abbinare un rosato dalla buona struttura, fermo, secco, come il 7cento20 Aleatico IGP Puglia della Cantina Gentile, che al naso rivela note romantiche di rosa, fragola e melagrana, mescolate con un tocco di pepe rosa e mandorla. Il finale è fresco e leggermente speziato. Sul dessert invece consiglio una grappa DellaValle affinata in botti da Picolit, tipico vitigno autoctono a bacca bianca del Friuli, conosciuto ed apprezzato in tutto il mondo. All’olfatto sviluppa profumi molto delicati di frutta candita, con una spiccata prevalenza, al gusto, di sentori di arancio”.
E chi mai oserebbe inserire in un menù un dessert realizzato con patate, cipolla di Montoro, gel all’Amaro Montoro a base di carciofi e baccalà? Chef Cerrato, senza ombra di dubbio, sempre e solo lui, talento naturale, enfant prodige della cucina campana. La cucina è emozione, sentimento e godimento, Casa Federici ne è l’apoteosi.
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A Salerno il mare è sinonimo di amicizia, accoglienza e vera cucina con UMI
La cucina giapponese ha guadagnato terreno in Italia grazie a una combinazione di fattori culturali, turistici e gastronomici. La sua diffusione continua a prosperare, offrendo agli italiani un'ampia varietà di piatti da gustare e apprezzare. L'aumento della globalizzazione ha portato a un interesse sempre crescente per la cucina internazionale e la cucina giapponese; quest'ultima, con la sua varietà di piatti deliziosi e presentazioni artistiche, ha catturato l'attenzione degli italiani, che sono diventati sempre più curiosi riguardo alle tradizioni culinarie di altre culture.
Il crescente flusso di turisti giapponesi ha contribuito a creare domanda per la ricerca dell'autentica cucina giapponese nel Paese. Questo ha portato all'apertura di numerosi ristoranti giapponesi gestiti da chef nipponici, contribuendo a offrire autenticità nella preparazione dei piatti. Il sushi è diventato particolarmente popolare in Italia, sia nei ristoranti che nel cibo da asporto. La praticità del sushi, la sua presentazione estetica e la varietà di sapori hanno reso questo piatto giapponese una scelta popolare ormai consolidata.
Anche Salerno, come tutte le città cosmopolite, ha negli anni visto l'espansione di ristoranti multietnici ed in particolare asiatici sul proprio territorio. Cucine cinesi e giapponesi strizzano l’occhio a numerosi appassionati, ma pochi sono quelli che davvero fanno la differenza rispetto ai tanti commerciali che di valido hanno ben poco.
Umi, ristorante di cucina giapponese su Via Roma (al suo posto prima c’era il Bar Nazionale), sorto nel 2021 in piena pandemia, si è fatto notare subito per l’eleganza e l’autenticità delle sue proposte: il fusion qui è bandito. Questa parolina di tre lettere significa mare e il menù proposto da Fiorenzo Benvenuto e Gerardo Ferrari, in collaborazione con lo chef Jun Inazawa, è come un acquarello leggero che vibra sulle onde danzanti di turchese, dove il cielo si tinge d'azzurro ed il mare diffonde il suo eterno canto, un'ode antica, un richiamo puro.
Fiorenzo Benvenuto ha esordito: "La Cucina Giapponese tradizionale è una delle più equilibrate e sane del mondo ed è Patrimonio dell’Umanità dell’UNESCO.Siamo l’unico ristorante in Campania ad aver ottenuto la Japanese Food Supporter della JETRO (Japan External Trade Organization), una certificazione a sostegno della diffusione della gastronomia e degli ingredienti giapponesi all’estero, un importante riconoscimento per chi, come noi, vuole promuovere la vera gastronomia nipponica nel mondo. Il ristorante fortunatamente funziona e qui facciamo dell'accoglienza un'arte o meglio Washoku come si dice in Giappone, parola composta da wa che significa armonia e shoku che significa cibo. È la sintesi della cultura gastronomica nipponica che cura ogni dettaglio senza disturbare l’ospite e cerca di intuire le sue esigenze prima ancora che vengano espresse".
Lo chef è originario di Kagawa, una città del Giappone del Sud, e specializzato in cucina “Kaiseki”, una forma di alta gastronomia giapponese che enfatizza l'arte del cibo, la presentazione elegante e la stagionalità degli ingredienti. Originariamente associata alla cerimonia del tè giapponese, la cucina Kaiseki si è evoluta nel corso dei secoli, sviluppandosi in un'esperienza culinaria raffinata e sofisticata. Gli chef cercano di utilizzare ingredienti freschi e di alta qualità, che siano disponibili in quel determinato periodo dell'anno. Ciò significa che i piatti possono variare stagione per stagione.
Un pasto Kaiseki è composto da una serie di piatti (spesso più di una dozzina) che vengono presentati in un ordine specifico. Ogni portata è preparata con grande attenzione alla presentazione e all'estetica, con l'obiettivo di creare un'esperienza visiva e culinaria equilibrata. Questa cucina cerca di offrire un'armonia di sapori, combinando dolce, salato, amaro, acido e umami in un'unica esperienza gustativa, cercando di bilanciare i sapori in modo che nessuno di essi prevalga sugli altri. Gli chef Kaiseki spesso utilizzano strumenti tradizionali, come coltelli giapponesi di alta qualità e stoviglie artigianali. Questi strumenti contribuiscono alla preparazione attenta e alla presentazione meticolosa dei piatti, includendo anche la cerimonia del tè “Kaiseki Ryori”.
Il menù di Umi si caratterizza per i suoi piatti caldi ma anche freddi, le tempure, la brace, le zuppe, sushi e sashimi. Interessanti restano sicuramente udon e soba di grano saraceno, spesso serviti freddi con una salsa di immersione a base di salsa di soia e mirin, il riso con anguilla, la zuppa di pesce in brodo dashi, funghi e porro, sushi di cui hosomaki maguro e selezioni nigiri. I dolci sono invitanti, particolare è la creme brûlée giapponese al sesamo e vaniglia.
La manager di sala Silvana Carrara è attenta alla clientela, con garbo consiglia e descrive i piatti, suggerendo gli abbinamenti più indicati con le birre artigianali giapponesi, i sakè e i migliori vini nazionali e internazionali. C’è anche la possibilità di seguire un menù degustazione “Omasake”, che tradotto significa lascio fare a te, un atto di fiducia verso lo chef e la sua capacità di selezione delle migliori portate della cucina regionale per i propri commensali. Non è difficile infatti assistere alla performance culinarie dello chef Inazawa, che ha una sua postazione in sala proprio per esibire la sua maestria nei tagli e nell'assemblaggio del sushi, la cui materia prima freschissima viene manipolata al momento.
Ukiyo-e, panneli noren, atmosfera zen sono le componenti principali del design di rara bellezza che caratterizza Umi, un locale con pochi tavoli, un grande banco monolitico con sgabelli e oggetti minimal che riempiono gli spazi studiati nei minimi dettagli per ricreare le atmosfere delle città e dei ristoranti giapponesi. E se un proverbio giapponese recita: “Un viaggio di mille miglia inizia con un solo passo (千里の道も一歩から)”, allora Umi in quasi tre anni di vita di passi ne ha consumati già tanti, con la sobrietà che lo distingue e che lo ha già reso famoso agli occhi delle guide e della critica nazionale.
Il mare, custode di misteri e meraviglie, è poesia scritta con schiuma e sale, una melodia senza fine, un viaggio eterno nel cuore dell'infinito, nell'anima di chi con le mani può plasmare la materia prima e intessere pennellate audaci su tela infinita, intrecciando sogni con ali di libertà, nell'abbraccio salato della brezza che tutto avvolge e incanta.
Annamaria Parlato 30/09/2023
Tipico delle coste attorno Salerno, il corbezzolo esprime la mediterraneità
Il corbezzolo (Arbutus unedo), considerato da Giovanni Pascoli, che vi dedicò una poesia, una prefigurazione del tricolore, e osannato dal poeta latino Ovidio, è un arbusto tipicamente autunnale, detto anche ciliegio marino. Un sempreverde, tipico della macchia mediterranea, con foglie coriacee, ovali-oblunghe, appuntite e lucide in superficie.
Il corbezzolo è noto per la sua resistenza e la capacità di crescere in terreni poveri e aridi. Questa caratteristica lo ha reso un albero importante per la conservazione del suolo in alcune regioni costiere, dove la sua radice profonda può prevenire l'erosione del terreno. I fiori sono di color bianco-cereo, piccoli, con la corolla tuboloso-rigonfia a guisa di orciolo, riuniti in brevi grappoli terminali; hanno calice a cinque piccoli lobi e dieci stami.
I frutti consistono in bacche scarlatte o rosso-carminate, grosse quanto una ciliegia, rivestite esternamente di piccoli aculei come le infruttescenze dei platani, in modo da apparire zigrinati. Questi frutti sono pieni di polpa soda bianco-rosea o giallognola, di sapore acidulo. La corteccia e le foglie del corbezzolo, in passato, erano usate per la concia delle pelli. Spesso associato a simbolismo e leggende, in alcune culture mediterranee, l'albero è considerato un simbolo di buona fortuna e di amore eterno. Una leggenda irlandese racconta che il corbezzolo sia stato piantato dalla Dea della guarigione e dell'amore, Clídna, per proteggere gli uccelli e gli insetti durante l'inverno.
I frutti si possono conservare sotto spirito, sono ottimi per ricavarne marmellate e liquori; se fatti fermentare, si possono produrre bevande alcoliche. Pregiato è soprattutto il miele di corbezzolo. L’origine del nome dovrebbe derivare da Plinio il Vecchio, che sosteneva che il frutto fosse aspro e insipido e che non riusciva a mangiarne più di uno (unum = uno + edo = mangio). In greco invece il termine è κόμαρος, che si legge kòmaros, da cui derivano molti nomi geografici, tra cui il Monte Cònero nelle Marche, la cui vegetazione è ricca di piante di corbezzolo.
Il frutto del corbezzolo viene utilizzato anche per scopi terapeutici, che sono molteplici: è astringente, antidiarroico; è un antinfiammatorio delle vie biliari, del fegato, delle vie urinarie e dell’apparato circolatorio; è un antispasmodico dell’apparato digerente. In cosmesi il decotto di foglie di corbezzolo, è simile al tonico, rinfrescante, purificante e detergente. Nel linguaggio delle piante, i fiori bianchi del corbezzolo significano ospitalità e in Toscana si usa l’espressione “corbezzoli” per indicare meraviglia e stupore.
Se si preferisce utilizzare il corbezzolo in cucina, l’ideale è farne una confettura, un prodotto gourmet ottimo con pane e burro. In genere, i frutti non si trovano nei negozi o nei supermercati, quindi bisogna affidarsi a ricerche di fortuna nelle campagne. Per fare una confettura, dopo aver trovato un albero con i suoi frutti, bisogna lavare i corbezzoli e metterli in pentola, ricoprendoli di acqua fredda (la quantità della frutta dovrebbe oscillare intorno ai 500 gr).
Si portano poi a bollore per circa venti minuti e si schiacciano con una forchetta su un colino, per separare la polpa dai semi. Ricavata la polpa, si aggiungono lo zucchero di canna (circa 140 gr) ed il succo di mezzo limone. Bisogna a questo punto far bollire tutto a fiamma vivace. Dopo dieci minuti di cottura, la confettura sarà pronta da gustare, squisita se abbinata a dolci fatti in casa o a del fragrante pane casereccio: una merenda pomeridiana sana, originale e gustosa.